GIUSEPPE VERDI NELLA MUSICA SACRA

 

Giuseppe Verdi: una pietra miliare nella carriera artistica di Giovanni Tebaldini; un punto di riferimento costante; un autorevole sostegno ideologico alla sua tesi di rivalutazione dei grandi musicisti del passato per procedere…

Per la ricorrenza del primo centenario della sua nascita, Tebaldini tornò su un tema a lui caro dettando questo impegnativo studio.

 

Invitato a collaborare nella Nuova Antologia in onore del grande Maestro italiano, mi veniva assegnato un tema che a tutta prima resemi quasi dubbioso e diffidente: Giuseppe Verdi nella musica sacra.

Come parlare infatti di questo argomento e con quali criteri, se tutta la mia modesta vita d’artista, da un trentennio ad oggi, ha mi­rato soltanto al proposito di promuovere la restaurazione della mu­sica sacra secondo quei principî estetici e liturgici, dai quali - e pei maggiori e pei minori compositori - parve per sì lungo tempo né soltanto in Italia - l’arte sacra discostarsi?

Avrei dunque dovuto rifiutare: o pure, al lume delle nuove idee oramai diffuse e praticate ovunque, pretendere di accingermi a soste­nere e difendere i principî pei quali ho combattuto e combatto cri­ticando ingenuamente una parte dell’opera grandiosa dell’autore della Messa da requiem composta per l’anniversario della morte di Alessandro Manzoni: quella Messa cioè che al suo apparire nel 1874 faceva sorridere maliziosamente e poscia, a venti anni di distanza, ricredere ed Hans von Bülow e Camillo Saint-Saëns? Pensai allora che ognuno deve avere il coraggio delle proprie idee non solo per negare ma anche per affermare, e mi accinsi a dettare il presente articolo.

Poiché quella prudenza che per senso di rispetto mi avrebbe po­tuto suggerire di tacere, qualcuno avrebbe potuto giudicarla debo­lezza; mentre ad una tacita dedizione nessuno finirebbe per credere essendo essa troppo lontana da’ miei principî e dal mio passato non soltanto di critico - comunque mi si voglia giudicare - ma altresì di propagandista, nel senso pratico, dell’arte liturgica.

D’altra parte le mie relazioni personali col Maestro; i lunghi conversarî sull’arduo tema; le di Lui precise idee acquisite cogli anni intorno alla musica sacra ed alle sue finalità, mi vennero in suffi­ciente aiuto e mi determinarono ad assumere il compito che, senza jattanza e senza timidezza, mi accingo ad affrontare ed a svolgere.

 

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Qualche mese innanzi la morte del sommo Maestro ebbi occa­sione di avere fra le mani un suo Tantum ergo autografo composto in gioventù, trascritto con ogni cura e nitidezza e dedicato ad un suo carissimo amico dilettante baritono e farmacista in Busseto. Rile­gato in tutta pelle e decorato con fregi dorati, era stato presentato dai possessori al Maestro stesso perché dichiarasse se riconosceva per suo il componimento e l’autografo prezioso! Ed il compositore nel­l’autenticare il proprio manoscritto, alla distanza di oltre sessanta anni, v’aveva aggiunto di suo pugno press’a poco questa dichiara­zione: «Purtroppo riconosco per mia questa brutta composizione, consiglio chi ne è possessore di gittarla alle fiamme non avendo essa alcun valore né artistico né liturgico».

A quegli il quale riteneva il Tantum ergo in parola non parve vero di essere riuscito a rendere più prezioso il duplice autografo, e se lo tenne - come era ben logico - oltremodo caro. Ma se a me fu offerta occasione di vedere in quell’andantino di carattere villereccio e nella cabaletta dei Genitori null’altro che una delle solite composi­zioni da chiesa tanto in voga in quel tempo, dettate sulla falsariga dei Tantum ergo di Mercadante e di Coccia, potei anche, nella chiosa più recente, rilevare quanto il Maestro fosse compreso dell’impor­tanza di alcune sue affermazioni che in materia di musica sacra eb­bero, si può dire, valore assoluto: cioè lo storico Torniamo all’antico ripetuto a Francesco Florimo1, ed il «Noi pure figli di Palestrina ave­vamo un giorno una scuola grande e nostra! Ora si è fatta bastarda e minaccia rovina. Occorre tornare da capo!», con cui nel 1892 si ri­volse ad Hans von Bülow2. E che queste affermazioni non fossero, dal suo labbro, frasi d’occasione, lo prova il fatto del vivo assoluto inte­ressamento da Lui dimostrato sovente, di conoscere ed approfondire le opere dei classici maestri italiani della polifonia. Mi narrava Egli con rammarico, nella silenziosa quiete della sua grande camera da studio e da letto a Sant’Agata, di avere sempre nutrito il proposito di prendere domicilio per qualche tempo a Bologna, a Roma od a Napoli per trovar modo di studiare nelle Biblioteche sulle grandi composizioni dei maestri del bel periodo antico; ma che purtroppo, stretto dal tempo, dalle imperiose necessità della sua vita d’artista, dall’obbligo di lunghi viaggi e di doverose visite, non gli riuscì mai di attuare il suo divisamento.

Come appare dalle lettere più innanzi riprodotte, sul principio del 1896 il Maestro chiese a me di poter conoscere alcune composi­zioni sacre d’autori settecentisti della scuola veneta sui temi dei quali diceva di essersi esercitato da giovane alla scuola del Lavigna.

Parlando di queste circostanze dimostrò più volte d’aver saputo rilevare con intuizione sicura le differenze di stile che corrono fra i polifonisti del secolo XVI e quelli di un secolo o di due secoli appresso. Meglio; ricordo ancora come Egli insistesse sulle affinità che qualche volta si palesano fra alcuni passi di G. S. Bach e di Haëndel con dei brani dei Salmi di Marcello. Il discorso per l’appunto fu portato un giorno sulla identità del tema della prima Fuga del Clavecin bien tempéré col primo Salmo del maestro veneziano.

Né soltanto della risorta polifonia vocale dimostrò Egli di interes­sarsi pur dal punto di vista liturgico: ché lo stesso canto gregoriano, nelle tonalità, nel ritmo, nella scrittura gli si palesò in tutta la sua bellezza formale ed intrinseca.

 

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Quando Giuseppe Verdi si accinse a dettare la sua grande Messa da requiem ogni idea di restaurazione e di riforma della musica sacra in Italia non si era peranco affacciata. Quel che accadeva in Germania ed in Francia, da noi si ignorava completamente.

Franz Witt, fondatore del cecilianismo tedesco - tutto pervaso allora di anima italiana - era appena all’inizio del suo poderoso la­voro di organizzazione. Non potevasi quindi, né da Verdi né da altri che già non fosse entrato nell’atmosfera delle nuove idee, porre la questione quale dovesse essere la musica sacra, né come considerare la sua portata estetica e liturgica se i più grandi maestri, da Bach ad Haydn, da Mozart a Beethoven, da Schubert a Liszt, da Rossini a Berlioz, tutti - o quasi - avevano preferito seguire la via spaziosa della lirica e della drammatica, cercando con questi mezzi di espres­sione di accostarsi al senso profondo dei suoi testi.

Cherubini - classico ed accademico - Mendelssohn più puro ed ideale: entrambi più castigati e contenuti, parvero aver detto una parola, se non mistica o liturgica, senza dubbio più affine al senti­mento religioso. Schumann, tutto pervaso di romanticismo, nel Sanctus della Messa in do min. musicalmente s’era innalzato ad altezze sublimi, ma aggiungendo immagini ad immagini, dalla sere­nità dei primi temi ampliando le linee sonore della sua architettura, sovrapponendo fantasticamente testi fra di loro disparati, aveva tolto alla propria Messa ogni valore liturgico.

Soltanto Riccardo Wagner e Gaspare Spontini parlarono alto e solenne in favore della restaurazione palestriniana da entrambi più volte - ma isolatamente - praticata.

Nessun contributo a questo movimento poteva però recare Gou­nod troppo romantico e sentimentale nelle sue Messe numerose, men­tre in Italia l’opera veramente singolare e nobilissima di Mons. Ja­copo Tomadini - malgrado i premi conseguiti a Firenze ed a Parigi - era rimasta ai più affatto ignorata, perché circoscritta alle valli del natìo Friuli.

Verdi per conseguenza non si propose nel 1873, né l’avrebbe po­tuto, dato il movimento musicale di quegli anni, il quesito sul carat­tere cui informare il proprio grandioso componimento. Del resto non diversamente seppero fare compositori altrettanto celebrati venuti ap­presso - come il Dvorak - pur in altre Messe da requiem.

Per me e per queste considerazioni cade quindi ogni ragione di critica - sulla base del principio liturgico - alla Messa composta in morte di Alessandro Manzoni. Entrare poi nella disamina di essa, mentre l’opera celebrata sta per raggiungere il quarantesimo anno di esistenza, mi sembra - lo dichiaro - affatto inutile.

 

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Non posso fare a meno tuttavia di rilevare le patenti contraddi­zioni cui la critica italiana, pur recentemente, si è abbandonata in modo strano. Gli uni - e furono i dilettanti - gridarono crucifige alle asserite banalità di alcune pagine descrittive; gli altri - e par­vero i dotti - scoprirono nella Messa perfino la mistica sensualità della polifonia palestriniana! E costoro credettero avvalorare la loro tesi gabellando Palestrina per umanista, figlio della rinascenza, solo perché vissuto in pieno secolo XVI. Dove, quando ed in che modo avranno essi imparato a conoscere il grande compositore romano, Dio lo sa! Verdi, lui stesso lo scriveva nel 1836 ad un amico - il maestro Pietro Massini in Milano - per genio non si sentì mai in­clinato alla musica di chiesa.

Dai primi anni in cui visse a Busseto, e parve aspirare al posto di Maestro di Cappella del Duomo di Monza, sino al 1873, non si oc­cupò mai di musica sacra. Dettò la Messa da requiem spinto dal desiderio di lasciare traccia della sua religiosa venerazione per la memoria di Alessandro Manzoni. E compose musica eminentemente drammatica, in cui i sentimenti espressi dal testo sono resi nella loro significazione ideale, sintetica e concreta, ma senza riguardo alcuno alla disposizione letterale del testo medesimo.

Cito un solo esempio. La breve frase di due battute: Salva me fons pietatis del Dies irae, ritorna alle diverse voci dei solisti ed al coro, ben ventisette volte in cinquantatré battute di musica.

Verdi, così conciso, rapido e sicuro nel tracciare le linee de’ suoi quadri musicali in teatro, avrebbe fatto questo in un’opera scenica su testo italiano? No certamente! Tosto ne avrebbe rilevato l’anacro­nismo, e l’avrebbe soppressa.

Ma, lasciando ad ognuno che mi ha preceduto o mi seguirà di pronunziarsi a proprio talento sulle diverse parti della Messa, al lume dei criteri estetici che in fatto di musica sacra ho sempre pro­fessato, dichiaro tosto che mi sento assai più vicino al Requiem tutto pervaso di supplice implorazione ed al Te decet hymnus, i quali en­trano nel primo quadro del vasto componimento, che non agli altri grandiosi brani prepotentemente suggestivi ed ormai da due genera­zioni acclamati. E ciò perché in essi rilevasi una certa analogia con gli ultimi Pezzi sacri eseguiti per la prima volta a Parigi nella Set­timana Santa del 1898.

La calma serena del primo tema, il procedimento imitativo di quello che vi succede, si accostano stilisticamente al Pater noster a 5 voci: meglio forse allo Stabat Mater ed al Te Deum.

Qualcuno che dalla asserita conversione di Giuseppe Verdi verso l’estetica degli antichi maestri italiani si era immaginato di arrivare finalmente a scorgere, nelle ultime sue composizioni sacre, il riflesso della vera classica polifonia vocale, sarà rimasto quasi deluso, quindici anni sono, quando apparvero, nel leggere quei Pezzi sacri cui ora volgo la mia attenzione. Eppure a me sembra che il cammino percorso da Verdi dal Tantum ergo composto pel farmacista di Bus­seto allo Stabat Mater ed al Te Deum di sessant’anni più tardi non l’abbia compiuto alcun compositore a lui contemporaneo, né altri di cui la storia abbia lasciato ricordo e traccia.

 

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Nel febbraio del 1896 così mi scriveva il Maestro riferendosi ad una mia recente pubblicazione d’indole storico-critica [L’Archivio Musicale della Cappella Antoniana in Padova, 1895]: “Ella parla a lungo del P. Vallotti di cui io sono ammiratore, anzi… riconoscente per alcuni studi fatti su suoi temi nella mia gioventù, ed  a pag. 45 vedo citato un Te Deum del P. Vallotti!

E’ stata una sorpresa per me che cerco da tanto tempo questa Cantica musicata, senza trovarla né in Palestrina, né in alcuni suoi contemporanei! Di altri Te Deum scritti per occasione alla fine del secolo passato, od al principio di questo, m’importa poco; ma mi piacerebbe assai conoscere questo del Vallotti… qualunque ne sia il valore”.

Una restrizione regolamentare fece credere al Maestro non si potesse appagare il suo desiderio. Intanto egli, in data 1° marzo successivo, mi indirizzava da Genova la lettera qui riprodotta in fac-simile e che per maggior chiarezza trascrivo nei brani principali:

“Io conosco alcuni Te Deum antichi, ne ho sentiti altri pochi moderni, e mai sono stato convinto dell’interpretazione (a parte il valor musicale) data a quella Cantica.

Questa viene ordinariamente eseguita nelle feste grandi, solenni, chiassose, o per vittoria, o per una incoronazione, ecc.

Il principio vi si presta, ché Cielo e Terra esultano… Sanctus, Sanctus Deus Sabaoth; ma verso la metà cambia colore ed espressione. Tu ad liberandum - è Cristo che nasce dalla Vergine ed apre all’umanità regnum cœlorum.

L’umanità crede al Judex venturus; lo invoca Salvum fac… e finisce con una preghiera: Dignare Domine die isto… commovente, cupa, triste fino al terrore!

Tutto questo ha nulla a fare colle vittorie e colle incoronazioni; e perciò desideravo conoscere se Vallotti, che viveva in epoca in cui poteva disporre d’un’orchestra e d’un’armonia abbastanza ricca, abbia trovato espressioni e colori, ed avesse intendimenti diversi da molti de’ suoi predecessori”.

L’esegesi che Verdi in questa lettera vien facendo del testo dell’Inno ambrosiano presenta senza dubbio molto interesse perché permette d’osservare come e quanto nella composizione musicale abbia seguito il disegno che si era tracciato.

 

 

 

 

 

 

 

Lettera di Verdi a Tebaldini dell’1 marzo 1896

 

 

L’interpretazione puramente liturgica dell’Inno in parola non poteva certamente appagare la fervida fantasia del compositore, abituato a cogliere tutti i particolari d’espressione lirica in ogni più piccolo dettaglio. Lo si vede chiaramente dal commento qui riferito. Infatti le varianti contenute nella melodia ambrosiana non ricorrono sempre là ove il testo – secondo l’interpretazione di Verdi – lo vorrebbe. Da ciò appare evidente che il Te Deum di Verdi – come lo Stabat Mater – va considerato quale Cantata di carattere religioso invece che quale composizione sacra strettamente liturgica.

Abbiamo constatato adunque con quali intendimenti Verdi si sia accinto a rivestire di note l’Inno ambrosiano. S’inizia esso sul tema liturgico, bello, grandioso, imponente. Poscia attraverso ad una successione di accordi semplici che passano dall’uno all’altro coro e che rivestono di carattere del falso bordone, s’arriva al Sanctus, Sanctus Domine Deus Sabaoth, scoppio improvviso di allegrezza, di sonorità gioconda. Pleni sunt cœli et terra majestatis gloriae tuae canta il primo coro: Sanctus, Sanctus, risponde l’altro con impeto di esultanza. Ed ecco spuntare il bellissimo tema che dovrà passare come tenue filo e risplendere poi luminoso. Sotto diverse forme e diversi colori, attraverso tutta la imponente composizione. Il contrappunto delle voci riveste qui un carattere corale veramente nobile e distinto. Ripetono i violini il tema precedente: tema che poscia viene imitato dai bassi, mentre le parti acute dell’orchestra e del coro contrappuntano con frasi ricche e sonore.

Ampiezza di linee, chiarezza di condotta, ricchezza di coloriti, ecco la caratteristica di questa grandiosa concezione i cui temi principali, ora in frammenti, poscia quasi per intero, fanno la loro comparsa come preparazione ad una più ampia ripresa di essi sotto nuove vesti orchestrali, talvolta più adorne, più lussureggianti, tal’altra più dimesse, più tenui, più quiete. Ma il finale sulle parole In te, Domine, speravi con quello squillo di tromba che si alterna ai legni unendosi alla voce del soprano, come è nuovo e soprattutto come è pensato!

Venendo a dire dello Stabat mater, fin dalle prime battute di esso, per gli accordi vuoti di quinta dati dagli archi, dai fagotti e dai corni, si rivela ad un tratto la vigoria di concezione che formò la caratteristica – in ogni tempo – dell’opera verdiana. E tosto lo strumentale si impone, pur nella sua semplicità, nella sua chiarezza, per la fusione, per l’amalgama delle diverse famiglie orchestrali. V’ha un punto di questo Stabat, là dove i baritoni cantano soli al Quae moerebat, in cui sembra risovvenirsi dello Stabat di Rossini. Ma può essere questa non altro che una impressione passeggera di cui non valga la pena tener conto.

Sia nell’architettura generale che nello sviluppo delle idee particolari, ritengo più completo il Te Deum in confronto dello Stabat Mater. Nondimeno anche di quest’ultimo merita siano ricordati i brani più interessanti. Episodi istrumentali arditi e bizzarri si succedono ogni tanto. Così accade dei sommessi squilli di trombe che accompagnano il Pro peccatis come per le voci insistenti dei corni che per otto misure continue vanno lentamente languendo in unissono fino al Dum emisit spiritum!

Tralasciando altri rilievi, che pure sarebbero interessanti, mi fermo all’ultimo versetto:

 

Quando corpus morietur

                                                                           Fac ut animae donetur

                                                                           Paradisi gloria.

 

Saliente pensiero che informa tutta la concezione così potentemente lirica della parafrasi musicale alla Sequenza di Jacopone da Todi.

Dapprincipio è il terrore, lo spavento che sembra dominare; poscia la speranza, il conforto, il gaudio della vita futura annunciata e presentita. Qui il compositore ha saputo rendere con magistrale efficacia il contrasto immediato di questi due opposti sentimenti; contrasto che egli già aveva ricercato nel Te Deum.

Squillano i corni e ad essi si accompagnano, a mo’ di strappate, sommessi accordi degli altri ottoni, fino a che, sulle note lunghe del coro, le arpe, i violini vanno delineando tutta una progressione ascendente la quale, coll’aiuto di tutto il resto dell’orchestra, va man mano aumentando sempre più di forza e di calore, per poi decrescere novellamente sugli arpeggi dei violini, appoggiati appunto dalle arpe. Agli archi soltanto è dato poscia di chiudere questa squisita pagina per la quale apparisce come una lontana rimembranza di quel sospiroso e così puro colorito che precede il duo d’amore nel primo atto d’Otello e che si inizia sulle parole:

 

 Già nella notte densa

                                                                               S’estingue ogni clamor.

 

Così, in una vaga, indefinita e serena contemplazione del futuro ha termine la elegia verdiana che tutta sta racchiusa in poco più che duecento misure.

 

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Fra il ridestarsi del fervore di critica verdiana in questi ultimi mesi, è apparso assai spesso - sotto varie forme - il commento più superficiale che la musica sacra di Giuseppe Verdi potesse mai sug­gerire, sia dal punto di vista liturgico, sia nella libera espressione di ideali sensi religiosi. E per entrambe le opposte tendenze si è potuto rilevare come un giudizio equo e sicuro, su questa particolare manife­stazione del genio verdiano, venga tutt’ora offuscato da una unilate­ralità di vedute assolutamente povera, gretta, meschina.

La Messa da Requiem non è certamente conciliabile con le esi­genze della liturgia molto opportunamente richiamate in osservanza in questi ultimi anni, non per sé stesse soltanto, ma ancora per un ritorno all’antico che pure, dal semplice punto di vista artistico, nella Chiesa, si imponeva in modo assoluto. Ma lo Stabat Mater ed il Te Deum potrebbero anche considerarsi con diversi criteri ed accogliere se non come propria e vera musica sacra, quale manifesta tendenza dell’autore verso più severe ed alte forme di espressione religiosa.

L’avere Verdi escluso nelle sue ultime composizioni le voci dei solisti prova l’attendibilità del mio asserto.

Ma il leggere poi che le leggi liturgiche le quali regolano la mu­sica nella Chiesa non sono che dei pregiudizi, e che il prendere a mo­dello per la musica sacra le opere di Palestrina maschera una assoluta aridità di idee, desta un senso di commiserazione. Ancora non hanno saputo e voluto comprendere taluni, che van per la maggiore, quale differenza passi fra il carattere narrativo ed il carattere descrit­tivo dei sacri testi; fra le proprietà intime della preghiera pura e semplice, anche se essa evoca fatti materiali, e la ripetizione ogget­tiva dei fatti medesimi. Né qui è tutto; ché ancora si osa parlare di una resuscitata forma d’arte, la quale tanto ha influito a promuovere lo sviluppo delle più moderne tendenze tecniche ed estetiche, come si trattasse d’una fissazione di pochi incapaci di commuoversi e di assurgere alle più emotive espressioni dell’arte de’ nostri giorni. Gli è che coloro i quali scrivono e sentenziano in questo modo mancano di ogni ombra di cultura e di suscettibilità spirituale in materia reli­giosa, mentre non avendo avuto tempo di studiare mai sulle opere di Palestrina e de’ suoi seguaci antichi e moderni, né di eseguirle o sen­tirle eseguite, si sono perfino dimenticati di ricordare quello che di Palestrina - consigliandone lo studio costante e la esecuzione in pubblico - ebbe a dire ed a proclamare più volte in sua vita lo stesso Verdi.

È mia gioia ed è mio orgoglio - posso dirlo liberamente - aver cercato ne’ miei studi di estetica esposti al pubblico, e con gli scritti e con la parola, di riaccostare nelle varie loro opere i grandi maestri della polifonia vocale coi contemporanei che nelle arti del pennello e dello scalpello seppero assurgere al più alto grado di assoluta bellezza e di profonda espressività.

Alcuni, a questo proposito, si sono domandati - quasi stupiti - quali relazioni e quali rapporti possano correre mai fra un quadro lu­minoso d’un pittore cinquecentista, ad esempio, ed uno squarcio poli­fonico vocale d’uno dei compositori più insigni che ebbero a trattare un medesimo soggetto o ad illustrare un avvenimento religioso di cui la liturgia abbia creato un simbolo ideale. Gli è che certe voci intime ed ascose si sentono, o non si sentono; si percepiscono, o no; certe luci vaghe ed indistinte si vedono, o non si vedono, si scorgono o re­stano per sempre occultate, specialmente alle persone di debole vista.

Cogliendo, delle diverse manifestazioni d’arte nella Chiesa, le af­finità tecniche ed estetiche, m’è sembrato come di schiudere innanzi allo sguardo di chi m’ascoltava un orizzonte ampio, vasto, sfolgo­rante, in cui lo sguardo potesse affissarsi come d’innanzi a più com­pleta visione di bellezza.

E come tale visione si rivelò a John Ruskin, cui la volta istoriata da Giotto in Assisi, alta da terra a mala pena trenta piedi e tutta rico­perta della parola di Dio, apparve come un messale miniato dagli an­tichi alluminatori, così anch’io sentii più volte di poter accompagnare la visione sublime dell’arte pittorica degli antichi alla grande poli­fonia palestriniana ove le voci si rincorrono, si seguono, si alternano vicendevolmente, pur nello stile imitativo, con una meravigliosa con­tinuità ed indipendenza melodica.

Passando poi da quegli esempi alle creazioni successive parvemi di poter riaccostare Andrea Gabrieli, compositore pieno di intima potenzialità espressiva, a Gian Bellini; e Giovanni Gabrieli, più li­bero ed audace coloritore, a Tiziano; ed Orazio Benevoli, ridondante, a Bernini; ed Antonio Lotti, quasi verista, a Giambattista Tiepolo3.

Tante coincidenze noi troviamo infatti fra i musicisti ed i pittori loro contemporanei da rimanere assai spesso non soltanto sorpresi, ma talvolta benanco sbalorditi. La musica sacra per conseguenza io giudico sia stata quasi sempre - tanto nelle grandiosi cattedrali quanto nelle più modeste chiese di campagna - il riflesso della pit­tura e della scultura religiosa. E mi domando: «Esistette sotto questo rapporto nel secolo XIX un’arte degna della tradizione secolare della Chiesa e del culto cattolico sia in Italia che fuori d’Italia?».

Rispondo: «No, assolutamente!».

Detto questi appunti presso le volte secolari di un grande isto­rico santuario e fissando lo sguardo su due concezioni pittoriche mo­derne, fra di loro profondamente diverse, rilevo le differenze spiri­tuali che animano entrambe.

La grandiosa cupola dipinta con ricchezza di linee, molteplicità di episodi e fasto pittorico da Cesare Maccari in Loreto, corrisponde esattamente, nel mio modo di sentire, allo Stabat Mater di Rossini ed alla Messa da requiem di Verdi.

La cappella del coro invece, religiosamente - quasi direi devota­mente - animata dal pennello di Ludovico Seitz, appare come la di­vinazione rivelata di quella risorta polifonia palestriniana la quale se non ha trovato ancora l’eletto rianimatore ha però, in una collettiva resurrezione spirituale, acceso tante giovani anime che si vanno idealmente preparando al grande avvento.

Ora, per riepilogare e concludere, io affermo che la musica sacra di Giuseppe Verdi - nella assoluta diversità di stile che dalla Messa da requiem allo Stabat Mater ed al Te Deum l’informa e la vivifica - rispecchia le condizioni dell’arte religiosa in genere - dapprima non concepita che quale espressione drammatica, poscia più vicina, senza entrarvi risolutamente, allo spirito della restaurazione litur­gica - quale si animò e visse attraverso la seconda metà del se­colo XIX. Ed a convincermi di questo, poiché la maggioranza della folla d’artisti e del pubblico che vive del teatro e nel teatro non è ancora riuscita né potrebbe tanto facilmente riuscire a comprendere cosa voglia significare nel concetto nostro musica sacra - allo stesso modo che è ancora tanto lontana dall’intuire le proprietà della pit­tura veramente religiosa - basta il fatto che in questa ricorrenza del centenario verdiano nessuno dei nostri più illustri maestri direttori d’orchestra ha pensato di far eseguire lo Stabat Mater ed il Te Deum. Tutti si fermarono alla Messa da requiem e più in là non vollero o non seppero procedere.

Si escogiteranno certamente delle ragioni per giustificare tale fatto, ma la verità in fondo è questa: le ultime composizioni di Verdi i nostri interpreti non le sentono; forse perché in esse manca l’ele­mento drammatico di cui invece va ricca la Messa da requiem e del quale essi hanno bisogno assoluto per raggiungere quei risultati ed ottenere quell’effetto immediato cui sono abituati ed al quale hanno abituato il pubblico.

A Parigi nell’aprile del 1898 ho assistito alla prima esecuzione dello Stabat Mater e del Te Deum. L’interpretazione parve accurata ma non animata al certo; l’accoglienza, rispettosa ma non fatta di convinzione. Ebbene, io auguro che una mente eletta, un fervido cuore, un braccio securo, quali in Italia fra i nostri interpreti pos­siamo grazie a Dio contare, vinte le riluttanze ed i preconcetti, sappia e voglia addurre nell’anima del pubblico le ultime composizioni di Giuseppe Verdi, sì che la sua nobile, alta ed austera figura abbia finalmente ad apparire tutta intera, lumeggiata in ogni più ascosa latebra dello spirito, e circonfusa di tutta quell’aureola che le età av­venire indubbiamente sapranno mantenere vivida, fulgida, incon­taminata.

 Giovanni Tebaldini

 

(da  “Nuova Antologia”, vol. CLXVII, serie V, Roma, 16 ottobre 1913, pp. 3-13; ripubblicato in “Bollettino Ceciliano”, a. VIII, n. 5, Roma, novembre 1913, pp. 257-272; stralcio in Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno, novembre 2001, pp. 224-234)

 

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1. Francesco Florimo (San Giorgio Morgeto 1800 – Napoli 1888), direttore dell’Archivio Musicale del Conservatorio di Napoli, pubblicò opere storiografiche divenute molto note: La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatori (1884), una biografia di Bellini (1882)... Scrisse a Verdi per invitarlo ad assumere la carica di direttore del Conservatorio di Napoli, ma il Maestro da Genova il 5 gennaio 1871 gli rispondeva dicendosi dispiaciuto di non poter accettare:

“[…] immaginate se io sarei fiero di occupare quel posto dove sedettero fondatori di una scuola Alessandro Scarlatti, e poscia Durante e Leo. Mi sarei fatta una gloria (né in questo momento sarebbe un regresso di esercitare gli alunni a quegli studii gravi e severi, e in così chiari, di quei primi padri. Avrei voluto, per così dire, porre un piede sul passato e l’altro sul presente e sull’avvenire…ché a me non fa paura la musica dell’avvenire. Avrei detto ai giovani alunni: - Esercitatevi nella fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegar la nota al voler vostro. Imparerete così a comporre con sicurezza, a disporre bene le parti ed a modulare senz’affettazione. Studiate Palestrina, e pochi suoi coetanei; saltate dopo a Marcello, e fermate la vostra attenzione specialmente sui recitativi. Assistete a poche rappresentazione delle opere moderne, senza lasciarvi affascinare né dalle molte bellezze armoniche ed istrumentali, né dall’accordo di settima diminuita, scoglio e rifugio di tutti noi, che non sappiamo comporre quattro battute senza una mezza dozzina di queste settime. Fatti questi studii, direi infine ai giovani: Ora mettetevi una mano sul cuore: scrivete; e (ammessa l’organizzazione artistica) sarete compositori… in ogni modo non aumenterete la turba degli imitatori e degli ammalati dell’epoca nostra, che cercano, cercano e (facendo talvolta bene) non trovano mai. Nel canto avrei voluto pure gli studii antichi uniti alla declamazione moderna.

Per mettere in pratica queste poche massime, facili in apparenza, bisognerebbe sorvegliare l’insegnamento con tanta assiduità, che sarebbero pochi, per così dire, i dodici mesi dell’anno. Io che ho casa, interessi, fortuna, tutto, tutto qui, domando a voi stesso, come potrei farlo?

Vogliate dunque, caro Florimo, essere interprete del mio grandissimo dispiacere presso i vostri colleghi ed i tanti musicisti della vostra bella Napoli, se io non posso accettare questo invito tanto onorevole per me. Auguro trovate un uomo, dotto soprattutto e severo negli studii. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere e sono belli talvolta in teatro, in conservatorio no!… TORNATE ALL’ANTICO E SARA’ UN PROGRESSO

I copialettere di Giuseppe Verdi (a cura di Cesari Gaetano e Luzio Alessandro), Milano, 1913, p.

“L’arte pianistica”, a. 1, n. 22, Napoli, 15 novembre 1914; Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, vol. III, pp. 355-56; Idealità convergenti  - Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini di Anna Maria Novelli e Luciano Marucci, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno, 2001, p. 234]

 

2. Il 7 aprile 1892 Hans von Bülow fa ammenda delle sue idee contro Verdi e da Amburgo:

[…] Degnatevi ascoltare la confessione d’un contrito peccatore!

Fa già diciotto anni che il sottoscritto si è fatto reo di una gran… gran bestialità giornalistica… verso l’ultimo dei cinque Re della musica italiana moderna. Se n’è pentito, se n’è vergognato amaramente, oh quante volte! Quando commesse il peccato accennato (forse la vostra magnanimità l’avrà affatto dimenticato) era proprio in istato di mentecattaggine – compatite ch’io mentovi quella circostanza, per così dire, attenuante. Ebbi la mente acciecata da un fanatismo, da «Seide» oltrewagneristica. Sette anni dopo – a mano a mano si è fatta la luce. Il fanatismo si è purificato, è diventato entusiasmo. Fanatismo – petrolio; entusiasmo – luce elettrica. Nel mondo intellettuale e morale la luce chiamasi: giustizia. Niente di più distruttivo dell’ingiustizia, nulla di più intollerante dell’intolleranza, come ha già detto il nobilissimo Giacomo Leopardi.

Giunto alfin a quel «punto di cognizione» quanto ebbi a congratularmi, quanto si è arricchita la mia vita, si è arricchito il campo delle più preziose gioie: le artistiche! Ho principiato collo studiare le Vostre ultime opere: L’Aida, l’Otello ed il Requiem, di cui, ultimamente, una esecuzione piuttosto debole mi ha commosso fino alle lacrime: le ho studiate non solamente secondo la lettera che uccide, ma secondo lo spirito che ravviva! Ebbene, illustre Maestro, ora Vi ammiro, Vi amo!

Volete perdonarmi, volete valervi del privilegio dei sovrani di graziare? Comunque sia, debbo, potendolo, fosse anche per darne l’esempio ai minori fratelli erranti, confessare la colpa del passato.

E fedele al motto prussiano: Suum cuique, esclamo vivamente: Evviva VERDI, il Wagner dei nostri cari alleati!”

E Verdi da Genova il 14 aprile:

“Illustre Maestro Bülow,

Non vi è ombra di peccato in Voi! né è caso di parlare di pentimenti e di assoluzioni.

Se le vostre opinioni d’una volta erano diverse da quelle d’oggi, Voi avete fatto benissimo a manifestarle: né io avrei osato lagnarmene. Del resto, chi sa… forse avevate ragione allora.

Comunque sia, questa vostra lettera inaspettata, scritta da un musicista del vostro valore, e della vostra importanza nel mondo artistico, m’ha fatto un gran piacere. E questo, non per mia vanità personale, ma perché vedo che gli artisti veramente superiori, giudicano senza pregiudizi di scuole, di nazionalità, di tempo.

Se gli artisti del Nord e del Sud hanno tendenze diverse, ebbene siano diverse. Tutti dovrebbero mantenere i caratteri propri della loro nazione, come dice benissimo Wagner.

Felici voi che siete figli di Bach!… E noi?… Noi pure figli di Palestrina, avevamo un giorno una scuola grande… e nostra! Ora s’è fatta bastarda, e minaccia rovina.

Se potessimo tornar da capo! […]”

[da “L’arte pianistica”, a. 1, n. 22, Napoli, 15 novembre 1914. La lettera di Verdi, anche in Ab, cit., IV, pp. 439-40]

 

3. Tebaldini allude alla sua conferenza “L’anima musicale di Venezia”, da lui tenuta per la prima volta il 20 febbraio 1908 nella Gran Sala del Collegio Romano con proiezioni di celebri opere d’arte ed esempi musicali diretti dal M° Vittorio Gui, presenti S.M. la Regina Margherita e personalità del mondo culturale della capitale. Negli anni la conferenza fu ripetuta con successo a Torino (1913), Zurigo, Losanna e Ginevra (1921).

 

 

 

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