L'ITALIANITA' MUSICALE NEL PENSIERO E NELL'AZIONE DI GIOVANNI TEBALDINI

 

 

Per meglio comprendere l’opera di Giovanni Tebaldini1 volta alla propositiva riscoperta della genialità musicale italiana, è opportuno rivisitarne il pensiero e l’azione, supportati da citazioni.

In primo luogo occorre rifarsi ai suoi studi, in particolare a quelli di paleografo, al suo impegno nella riforma della musica sacra, al suo senso della storia, ai suoi ideali artistici in rapporto alle tendenze di quel tempo, alla sua moralità e onestà intellettuale e perfino alla circolarità della sua attività e alla interdisciplinarità.

Un incoraggiamento a proseguire il suo lavoro in questa direzione gli proveniva certamente dal postulato verdiano “Tornate all’antico e sarà un progresso”2 e dallo spirito italico-popolare che aveva animato l’opera di Giuseppe Verdi in sintonia con il Risorgimento. Non a caso, anche se Tebaldini apparteneva alla generazione post-romantica e non sentiva come altri il richiamo del melodramma di stampo ottocentesco, difendeva la genialità del grande di Busseto, anche nei confronti del suo rivale d’oltralpe, Richard Wagner, di cui peraltro egli conosceva e apprezzava le opere ascoltate a Bayreuth nei mesi degli studi ratisbonesi e, successivamente, all’annuale Festival wagneriano. Inoltre, Nel suo ampio e profondo saggio su “Verdi e Wagner”3, aveva analizzato e spiegato, con solide argomentazioni, il perché la musica verdiana andasse condivisa e apprezzata, mettendone in prima linea proprio l’identità di arte tutta autoctona.

Dunque, egli avvertiva il bisogno imperioso di riallacciarsi ai più puri ideali dell’Arte attraverso le voci dei secoli passati. Il suo legame con la storia era indotto dalla necessità di riappropriarsi delle “glorie italiche remote”, che avevano contribuito a costruire le fondamenta della nostra civiltà e mostravano una maturità e una qualità conosciute da pochi. Ma con ciò non intendeva compiere una retorica operazione di restaurazione o una mitizzazione acritica, bensì nutrire il contemporaneo con un patrimonio storico-culturale, dal quale trarre stimoli per andare avanti, nel momento in cui, in ambito religioso, si avvertiva una dilagante profanazione nella scelta del repertorio e, nel teatro, una sopravvalutazione dell’arte francese e tedesca a svantaggio di quella italiana.

Così scrisse Giulio Confalonieri4 nell’articolo MUSICA – Cose a posto, che uscì su “7Giorni” (a. IX, n. 26, Milano, 26 giugno 1943); ripubblicato con il titolo Omaggio a Tebaldini, in Bruciar le ali alla musica (Rizzoli, Milano, 1945, pp. 256-62):

[…] Nel campo delle resurrezioni musicali, dell’intuito profondo per i nostri tesori, della adorazione senza fini nascosti e dell’ostinata volontà di diffonderli, il caso di Giovanni Tebaldini si può chiamare più unico che raro.

Questo musicista oggi illustre […] può dirsi il solo in Italia che abbia pagato con una specie di martirio la sua fanatica fede nell’antica musica nostra. Le vicende di lui fra il 1890 e il ‘900 assomigliano a un racconto di Defoe o di Verne. Allo stesso modo di Robinson e di Cyrus Smith, Tebaldini viene sbattuto su una scogliera deserta, e con pochi rottami di nave deve farsi una casa, provvedersi di armi, cercare soprattutto di non perire, ossia, per stare in paragone più esatto, di non lasciar perire la fiamma che lo brucia e ch’egli intende di comunicare anche agli altri.

In quegli anni lontani, ogni composizione non melodrammatica sembrava un attentato all’integrità nazionale. Ogni musica che facesse a meno di un soprano o tenore era considerata “musica di pensiero”; e siccome il “pensiero” era stato messo a quarantena in Germania, chi fosse sospetto di riportare in patria era una specie di untore, da bruciarsi vivo e non meritarsi nemmeno la Colonna Infame in memoria. Tebaldini, che per naturale destino s’era incontrato coi nostri grandi maestri del Cinque e Seicento, pensò che, almeno in Chiesa, fosse concesso di eseguire musica da chiesa. […] in San Marco a Venezia, fu probabilmente il primo a far risentire Palestrina oltre le mura di San Pietro, e a restituire a codeste esecuzioni una fedeltà e un senso d’arte che anche in Roma esse avevano del tutto perduto. […] l’ombra della Biblioteca Marciana lo invitava a nuovi colpi di testa. Dormiva sotto la polvere il gran corpo glorioso della Scuola veneta nelle sue tre incarnazioni perfette di musica religiosa, di musica operistica e di musica istrumentale. Come un Sigfrido in giacca e pantaloni, Giovanni Tebaldini squassò le porte del recinto incantato e ne ritornò fuori con L’incoronazione di Poppea del Monteverdi, con brani d’opere del Cavalli e del Rovettino, dello Ziani e del Legrenzi, tutti da lui trascritti […]. I primi saggi importanti della nostra musica melodrammatica e dello spettacolo allegorico-religioso, le due Euridice di Peri e di Caccini e la Rappresentazione di anima e corpo di Emilio de’ Cavalieri, non sfuggirono, neppur esse, all’acuto sguardo di Tebaldini. Non ci fu autor nostro che egli non esplorasse e non facesse rivivere nell’esecuzione. Le “ultime terre” dei giorni nostri, i due Gabrieli e il Frescobaldi, il Sammartini e Alessandro Scarlatti, tutte, con estrema naturalezza, videro trenta o quarant’anni addietro la vela di questo Caboto della musica.

Ma, non ancor soddisfatto, Tebaldini, con pochi altri pionieri tra cui Lorenzo Perosi e l’abate Guerrino Amelli, risalì su su verso le zone incognite del Canto gregoriano e a soli vent’anni di distanza, con mezzi mille volte inferiori a quelli dei “Ceciliani” tedeschi, poté rivelare anche a noi quella perfetta immagine di civiltà romana che è il “canto fermo”.

Fervore di studiosi, iniziative di ogni genere e concreto incoraggiamento del pubblico ci hanno oggi accomodati, confortevolmente, nell’uso della nostra grande musica classica. A tal punto, che il dispendio di essa è presso qualcuno, e qualche volta, una posa.

Ma noi dobbiamo sapere, dobbiamo far sapere come non più di quarant’anni addietro, eseguire musica antica in Italia fosse come rizzar barricate e come, su codeste barricate, Giovanni Tebaldini combattesse già quasi ogni battaglia possibile. Riportandone ferite, allora, assai più che non gloria.

Mentre l’insigne maestro, non piegato da una vita lunghissima, sta finendo di scrivere un volume su Palestrina [rimasto inedito] frutto di lunga consuetudine con le opere di Pierluigi, mi è parso utile di metter le cose un po’ a posto. La storia non mi piace; ma mi piace, ogni tanto, di fare lo storico.

 

L’italianità di Tebaldini, in sostanza, parte dalla militanza teorica e pratica in favore della riforma della musica sacra, con la riproposta del canto gregoriano e della polifonia vocale; dall’esigenza di contrastare certe degenerazioni in atto e, perciò, di difendere la funzione spirituale della vera musica e i valori atemporali. Proverbiali le sue polemiche con quanti non osservavano i canoni classici nelle composizioni liturgiche, ad iniziare dal suo professore di organo al Conservatorio di Milano, Polibio Fumagalli5, Gounod6 e altri, tra cui certi religiosi conservatori del cattivo gusto.

Per avere maggiore popolarità e una carriera più facile, Tebaldini avrebbe potuto cedere alle lusinghe del Romanticismo e praticare il melodramma in auge, invece scelse l’ardua via del rigore, della specificità, delle riforme e della “riviviscenza della tradizione” con i “Concerti storici”, iniziati fin dal 1891 a Venezia e proseguiti a Roma, Napoli, Milano, Bologna, Ravenna e altrove. Si era prefissato di togliere dalla polvere degli archivi partiture completamente ignorate perfino dagli addetti ai lavori, intravedendo in esse la strada maestra per un’evoluzione musicale7. Quindi, non puntava a meravigliare con trasgressioni più o meno esteriori, ma piuttosto con l’innovazione ispirata alla classicità in una visione etica e poetica dell’arte musicale.

Tale ideologia si ritrova anche nelle sue composizioni, che tendono al lirismo religioso pervaso di profonda umanità; sono meditate, ma non al punto di reprimere gli impulsi interiori e l’estro melodico. In altre parole, esse non scaturiscono da uno sperimentalismo fine a se stesso: si avvalgono della sapienza tecnica, ma evitano gli schematismi e, nel contempo, il sentimentalismo. E tutta la sua poliedrica attività è strettamente legata alla propria esistenza e alla concezione dell’arte musicale che, secondo lui, doveva tendere all’elevazione spirituale. Per questo non aderiva a formule impersonali e a mode culturali. Si sentiva investito di una missione e le dedicò l’intera vita. Seguiva un preciso indirizzo, maturato da acute intuizioni, seri studi e valide motivazioni. Si può dire che sia stato un illuminato autore ‘presente’ nel suo tempo con una coscienza storica. Era un creativo puro, indipendente dal sistema socio-politico. La sua italianità, infatti, è confinata nell’ambito artistico-intellettuale-spirituale. Chiaramente, acquistava una valenza nazionalistica nel momento in cui vantava i valori inconfutabili delle nostre ricchezze artistiche.

In una conferenza del 22 marzo 1941 su “La tradizione musicale”, tenuta presso l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Brescia8, egli condensava così le sue idee:

[…] Tornare all’antico? “Ma la musica è andata innanzi: ha progredito sempre!”. Chi parlava in questa guisa erano coloro i quali, ignorando gli antichi maestri – oppure conoscendoli soltanto di nome – erano rimasti fissi all’ottocentismo della decadenza.

Vennero poscia gli avanguardisti: gli arditi novecentisti i quali, buttando tutto in un fascio, gridarono i loro anatemi contro lo stupido Ottocento. Questo si lesse! Della tradizione – che non si spezza – essi, in un primo tempo, non vollero tener conto. “Ma che tradizione: vita nova incipit ab ego!” andavano ripetendo individualmente i nuovi arrivati, perché ognuno pretendeva di possedere la lapis angularis su di cui poggiare la nuova Arte. Ma poi si accorsero di essere su falsa strada e di non poter erigere i pretesi nuovi sistemi basandoli sul diniego della tradizione, se la stessa più moderna filosofia dell’Arte ne riconosceva nella storia l’importanza assoluta. […]

Ed allora, quasi d’improvviso, la tradizione divenne campo di speculative indagini pur da parte dei negatori di ieri; i quali poi -  moderni rabdomanti – pretesero riservato a sé tutto ciò che per loro… virtù, sembrava scaturire dal Sinai ultrasecolare dal quale essi credevano propagare il loro verbo.

Senonché la verità era, ed è, un’altra. Sì, perché – meminisse juvat. A questo caso, sin da settant’anni addietro, Giuseppe Verdi, con intuito profetico, aveva detto: Torniamo all’antico e sarà un progresso.

Alcuni fra i giovani musicisti di azione di quei lontani primi anni, comprendendo l’intimo significato della esortazione verdiana, si proposero sin d’allora di tradurla in pratica cercando realizzarla in forma viva e concreta.

Storiografia e critica, in Italia, erano appena incipienti; battevano la propria strada, ma dottrinalmente, e quasi empiricamente. Dell’altro occorreva compiere per arrivare alla resurrezione de la nostra musica. Anzitutto occorrevano, non soltanto interpreti in possesso della tecnica scolastica e di una tal quale esperienza direttoriale, ma altresì docenti dotati delle qualità necessarie alla formazione ab imis di elementi che, in quel momento, non esistevano: elementi i quali fossero atti alla esecuzione delle opere che si intendevano far rivivere corpo ed anima. […]. Verso il 1882, a seguito delle feste centenarie celebrate in onore di Guido d’Arezzo, per opera di pochi che agivano appartati, si iniziava in Italia attiva propaganda in favore della restaurazione della musica sacra nelle Chiese, fissando a modello la polifonia vocale cinquecentesca che si mirava di far risorgere nella sua ideale purezza. Dapprima siffatto movimento, pel suo stesso carattere ambientale, passò quasi inavvertito: specie nelle zone – e qui c’entrò anche la politica – le quali premevano trovarsi all’avanguardia della vita musicale cui l’arte sacra sembrava non meritasse di penetrare. Da esso invece – a mano a mano – generarono altre iniziative congeneri ampliantesi sino a portarsi sul terreno della musica da camera, della quartettistica e sinfonica; infine su quella della Cantata, dell’Oratorio e della stessa Opera teatrale.

Ma allora occorse anche vincere e superare il pregiudizio fondamentale: quello cioè che portava a considerare la musica dei secoli passati – canto gregoriano compreso – come appartenente a forme di arte iniziali, e perciò – in linea estetica – al dire degli eterodossi – totalmente superate. Si studiavano sì, da pochi, le opere degli antichi dal 400 al 700, ma soltanto per discoprire in esse i segni della graduale evoluzione dell’arte medesima. Erudizione per conseguenza: null’altro.

Partire, sin dai primi tempi e dai primi esempi da un criterio di giudizio, dirò così, oggettivonon relativo, ma assoluto – non si voleva ammettere. Lo stesso Palestrina, da parte di chi lo conosceva soltanto attraverso le pagine della storia, veniva considerato quale un sorpassato, né suscettibile di vita trascendente. Ma, obiettavano gli altri: “possibile che nelle epoche di maggior splendore per le arti figurative, architettoniche e decorative – nel periodo del grande Rinascimento – rappresentasse la musica null’altro che il segno di una manifestazione esteticamente inferiore? Errore fondamentale della storia, sembrava a noi questo. Eppure lo si bandiva assiomaticamente dalle stesse cattedre ove insegnavano musicisti e musicologi di bel nome; non però nelle condizioni di sapere e di poter scrutare – vivificando – oltre il pentacordo della carta scritta o stampata, e di comunicare realmente con l’anima dell’arte antica.

Procedo in alcuni rilievi per ordine storico.

Il superbo polifonista sivigliano Cristoforo Morales, vissuto nella prima metà del 500 aveva pur ricevuto l’afflato ideale. Il nostro grande Palestrina e l’amico suo Tomaso Lodovico da Vittoria (altro spagnuolo), dettando a Roma le loro immaginate e potenti creazioni, indubbiamente si erano soffermati innanzi al Pinturicchio delle Sale Borgia e al Perugino di Santa Maria della Vittoria. Essi, con un fervore e una rapidità che ancora oggi sorprendono e meravigliano, crearono le loro opere, tuttora pulsanti di vita, a fianco di Raffaello, di Michelangelo, di Bramante e di Andrea del Sarto. A Venezia Iacopo Robusti, il Tintoretto, intratteneva Giuseppe Zarlino, teorico e compositore, anche con scritti esponendogli i suoi criteri intorno alla potenza della musica, e lo Zarlino a sua volta, corrispondeva, anzi discuteva, coll’immortale animatore della Scuola di San Rocco e della Sala del Gran Consiglio, contrapponendo le proprie vedute in ordine estetico a riguardo delle concezioni pittoriche dell’amico celebrato.

A Monaco di Baviera e a Norimberga, Orlando di Lasso – il Palestrina del Nord – aveva pur avvicinato, ed in diverso campo, si era pur misurato con Albrecht Dürer.

Ancora a Venezia i due Gabrieli, Andrea e Giovanni – zio e nepote – entrando in San Marco si erano sentiti ispirati nel contemplare i mosaici disegnati dalla fantasia immaginosa di Tiziano e di Paolo Veronese, del pari che innanzi ai bronzi e ai fregi marmorei della Loggetta del Sansovino. Ah quell’Angeli et Archangeli di Andrea, e quel Surrexit Christus pasquale di Giovanni (che noi abbiamo fatto rivivere sotto le dorate cupole della Marciana), di quanto fulgore sono essi aureolati!

Luca Marenzio, detto per antonomasia il dolce cigno, a metà del secolo XVI si partiva da la terra bresciana per recarsi a Roma a compiere la serie de’ suoi Mottetti e de’ suoi Madrigali, illuminata la fronte dalle vivide luci che si diffondono dalle tele del Savoldo, del Moretto e del Romanino.

Marco Antonio Ingegneri – il Maestro di Claudio Monteverdi – ne’ suoi Responsori che commentano la Passione del Redentore parve persino rivaleggiare col Mantegna del Cristo Morto nella Cattedrale di Cremona; lo Stabile e Gesualdo da Venosa, l’audace madrigalista che sembra presentire le tragiche concezioni del Caravaggio, nel centro della vecchia Napoli, a San Domenico ai Gerolamini, a San Paolo, a Santa Chiara, a San Pietro a Majella avevano indubbiamente incontrato e discusso di arte col Solimena e con Luca Giordano e con Mattia Preti.

Come pretendere adunque di circoscrivere la musica dei secoli XVI e XVII nei confini di un’arte iniziale, avulsa dal grande movimento della rinascenza, rivelatasi soltanto in potentia, se essa era arrivata a tale grandezza da poter camminare pari passo a fianco di tutte le altre arti? Per noi italiani basterebbero due sole figure immortali nella storia e nelle opere – Palestrina e Monteverdi – smentire le troppo facili asserzioni dei musicologi delle prime ore mantenutisi nei limiti approssimativi, perché impossibilitati a penetrare realmente nelle opere d’arte, magari anche diligentemente elencate e classificate, ma nella loro anima rimaste completamente ignorate. Ecco perché la conoscenza della nostra antica musica – quella di cui Verdi auspicava la resurrezione – si sarebbe mantenuta allo stato di semplice, virtuale aspirazione, come ho già detto, se alfieri dell’idea, in condizioni di poterla realizzare praticamente e spiritualmente, non si fossero resi capaci di operare onde raggiungere un risultato concreto e positivo.

Per arrivare a questo fatto preliminare, si imponeva quello di affrontare la dura fatica di creare o di preparare gli elementi atti alla interpretazione delle singole opere prescelte. Cominciarono così ad organizzarsi pure da noi nel campo della musica sacra, e con risorta denominazione antica, le cosidette “Scholae Cantorum”.

A Parigi una siffatta istituzione ebbe i suoi inizi nell’accogliente dimora di César Franck (il grande César Franck) e nella Chiesa dei celebri organisti Couperin, Saint Gervais, per divenire poscia con Vincent d’Indy e Charles Bordes, quella Schola Cantorum che sino a ieri ha rivaleggiato con il Conservatorio Nazionale di Musica Francese.

A Venezia nel marzo del 1891 la Schola Cantorum della Marciana, dopo un solo anno di preparazione e di studio riusciva ad offrire al pubblico un primo Concerto Storico9.

Compilato con criteri storico-cronologici, con esso mi proposi illustrare la Scuola Veneta che – dalle volte aurate del magnifico San Marco – ero stato chiamato a resuscitare precisamente col proposito di tornare all’antico.

[…] Come sotto le ali benefiche del Leone alato, per le più eroiche imprese si erano animati i più grandi Condottieri e gli intrepidi Capitani chiamati dalla province lombarde, così la Scuola Musicale Veneziana, per due secoli, e per opera di maestri bresciani, cremonesi e bergamaschi si alimentava e si fecondava nel modo il più abbagliante e seducente. A queste fonti si doveva tornare e si è tornati. Né soltanto facendo rivivere le opere antiche, bensì ancora appoggiandosi alla concezione estetica dei maestri che tali opere seppero creare.

Verdi lo aveva anticipato e il suo profetico auspicio si è realizzato.

 

Fin dal 1916, nell’articolo Torniamo all’antico (“L’Orifiamma”, Ferrara, a. IX, n. 17-18-19), egli aveva puntualizzato alcuni concetti:

[…] È opinione diffusa da un’imperfetta conoscenza dell’arte nostra cinquecentesca e secentesca, che la musica antica contenga in sé un interesse puramente archeologico e formale, né che per il suo valore estetico e per le sue qualità passionali possa più destare interesse veruno. I grandi Mottetti di Palestrina; le Arie di De’ Cavalieri, di Peri e di Caccini; i Madrigali di Monteverdi; le Fughe di Frescobaldi che da ogni parte vanno risorgendo, stanno a provare quanto sia errato simile giudizio e sia ingenuo apprezzamento, che noi saremmo quasi tentati di chiamare povertà di critica.

[…] Per la musica […] si confusero epoche, stili, atteggiamenti, espressioni in un arruffio di false impressioni, e tutto dimenticando, vivendo come alla giornata, l’arte italiana – anche quando credettero pretese di emanciparsi dalla egemonia straniera – si buttò mani e piedi legati in braccio alla scuola francese (Gounod e Massenet) dapprima; poi alla tedesca (Wagner); indi di nuovo alla francese e tedesca (Debussy e Strauss) per fare oggi dedizione alla novissima musica russa (Stravinsky) impregnata di materialismo oggettivo sino alla volgarità.

Fortunatamente non tanto i compositori e gli esecutori si sono convertiti all’arte italiana tradizionale – rimasta per tanto tempo occulta ed ignorata -  e di cui avrebbero potuto valersi per erigere su solide basi l’edifizio nuovo - tempio sacro alla storia avvenire dell’arte nostra – quanto il pubblico sincero e vergine, trascinato sin qui sulla via falsa di un male inteso eclettismo cosmopolita, sensuale e pervertito.

Ovunque le musiche nostre genuine hanno risuonato con la voce dei secoli nell’anime vibranti di poesia e dappertutto la commozione si manifestò profonda, incancellabile.

[…] Valga il monito verdiano a ricordare – per nostro tardo ravvedimento – che tutte le Opere dell’immortale di Palestrina apparvero nell’ultimo trentennio stampate e ristampate magnificamente per iniziativa di un editore di Lipsia e sotto la protezione e con l’aiuto del Ministero della P. I. tedesco; che pur di recente i Melodrammi italiani del ‘600 ritornarono in luce in una splendida edizione viennese sotto il titolo di Denkmaler der Tonkunst in Oesterreich!! Capiscono gli italiani il significato di questi fatti? I capolavori dell’arte musicale italiana, dimenticati dagli italiani stessi, divenuti, dopo secoli di vita monumenti della musica in  Austria! Non ce n’è abbastanza per sentirsi vergognati ed umiliati? E non dovremo non sentire in oggi il dovere di riparare con ogni energia e con viva fede, alle mancanze deplorevoli verso l’arte nostra cui la dedizione all’arte straniera ci ha condotti insensatamente?…

[…] De’ Cavalieri e Peri ad oltre tre secoli di distanza evocati dalla voce popolare là dove il fastigio dell’arte italiana nelle sue più svariate estrinsecazioni ha lasciato traccie così nobili, impresse orme sì profonde, parvemi – fra tante volgarità incombenti, sul teatro in ispecie – fatto tanto significativo da sollevare l’animo alle più liete speranze per l’avvenire dell’arte italiana. Dire che il pubblico italiano non è fatto per comprendere le bellezze della musica italiana; che le nostre maggiori opere musicali, solo perché lontane da noi di tre secoli sono invecchiate e non posseggono più alcuna virtù suadente, ma soltanto qualche pregio frammentario di bellezza archeologica e sorpassata, è calunniare il pubblico nostro, è misconoscere la potenza dell’arte, è confessare la nostra inferiorità spirituale, la nostra deficienza intellettuale, e quindi dar ragione a quelle nazioni straniere le quali, come ho ricordato più sopra, si sono messe in condizione – umiliante per noi – di atteggiarsi a tutrici del nostro patrimonio ideale, di quel monumentale patrimonio artistico che sorse, visse e prosperò in Italia e che dall’Italia si diffuse pel mondo. Vorremo noi, per infingardaggine, permettere più oltre questa confisca intellettuale della nostra gloria passata?

Ammettono i meno indifferenti che la nostra musica va rimessa in luce onde sia possibile riallacciare il filo dell’arte moderna a quello della tradizione antica: è molto, ma non è tutto. Ammettono questo i più intelligenti, ma soltanto quale funzione didattica da riservare con criteri razionali ai Conservatori a scopo di coltura. Errore madornale, o signori, perché non furono né la grammatica, né il trattato di contrappunto che diedero vita all’arte, sibbene l’opera d’arte che generò la regola, la teoria, e che eresse la scuola. Errore madornale, ripeto; perché non sono i procedimenti armonici strumentali, né le formazioni melodiche – sebbene di esse siano cosparse – che si debbono ricercare nelle opere antiche, bensì la forza espressiva, il colorito, la passionalità stessa; in una parola la portata estetica e soprattutto l’anima che le sorregge.

Questo deve giustificare e suggerire l’esecuzione costante dei nostri capolavori innanzi al pubblico e per il pubblico capace di elevarsi – ne ho piena fede – al di sopra delle volgarità e fuori delle nebulosità cui sino a ieri è stato asservito.

[…] Questo fascino che la musica antica esercita su noi pochi da un trentennio a questa parte, mentre ci lasciammo pur trasportare e più volte peregrinammo verso il colle di Bayreuth, va penetrando oramai anche nell’anima dei giovani.

Dopo tante elucubrazioni filosofiche, dopo tanta retorica generata dal modernismo di Strauss, di Debussy e dei compositori russi più in voga; dopo le volate metafisiche che vanno da Nietzche a Gabriele D’Annunzio, la Fede nostra che fu sempre una e consentanea, né mai patì tentennamenti o dubbi, vede entrare finalmente nella propria orbita astri, pianeti e satelliti del firmamento musicale italiano che sino a ieri indifferenti alle nostre nozioni d’arte, perché insofferenti, rumorosi, turbolenti contro ogni genere che non fosse inspirato al futurismo catastrofico od al modernismo astratto. Oggi anche costoro sono del tutto persuasi forse della via sino ad ora battuta, cercano, scrutano, osservano pur dietro di essi, avvicinandosi a noi e promettendo dedicare le loro giovani energie alla resurrezione positiva e pratica dell’arte rivelatasi grande attraverso i secoli.

Laus Deo! Ripeto anch’io con Emilio de’ Cavalieri e… sursum corda! L’Italia musicale ha bisogno di ritrovare se stessa!

 

L’anno precedente, nel pieno della prima guerra mondiale, Tebaldini aveva sentito il dovere di prendere posizione scrivendo a D. Costantini, direttore della rivista “Arte Cristiana”, per risvegliare negli italiani, soprattutto in quelli che occupavano posti di prestigio e di potere, la fiducia e la consapevolezza nella propria dotazione intellettuale. Il Costantini pubblicò la “nobile e fiera lettera […], perché essa tocca il grave problema della nostra coltura, fin qui troppo remissivamente mancipia dello straniero: è un grido di libertà, un incitamento a non dimenticare – dietro la conquista dei territorî – la necessità e il dovere di far seguire quell’altra conquista, nei dominî dello spirito, che riaffermi il genio della nostra gente, la libertà e l’italianità della nostra arte”.

Ecco il testo della lettera di Tebaldini:

Dove ha tuonato il cannone si levi anche la nostra voce per dimostrare il carattere italiano di tanta arte e della tradizione in codesti paesi fatti credere piegati alla scuola tedesca. Bisogna abbattere l’assurdo di quelle deduzioni storiche che si eressero sul fatto di aver lavorato i nostri grandi artisti per la monarchia degli Asburgo, facendo nascere la stupida leggenda che essi appartengano all’Austria e che l’arte loro appartenga di diritto alla storia dell’arte austriaca […] e così si contribuirà efficacemente a far tornare la coscienza del proprio essere a popolazioni forse immemori per il lungo servaggio.

Indubbiamente Austria e Germania hanno avuto l’accortezza, o l’arte di governo, di favorire – a loro modo – l’arte e gli artisti, la scienza e le lettere che potevano germinare dal pensiero e dall’anima degli irredenti, cercando piegare a sé la corrente degli studiosi più eminenti. E poiché vano sarebbe stato bussare alle porte nostre, molti si accontentarono di accettare la protezione che loro veniva offerta. Da ciò ne conseguì l’intedescamento attuale od almeno l’intorpidimento dell’anima nazionale italiana in codesti paesi. Cosa ha fatto l’Italia per impedire questa snaturalizzazione etnica delle regioni irredente? Cosa all’ingiuria che si veniva compiendo ai danni della storia? Nulla. E se oggi l’eroica audacia dei nostri non avesse vinto per altri elementi, noi ci saremmo addormentati per sempre fino a lasciar occupare il nostro Lago di Garda da una folla di Herrn o di Frauen […]. Così avvenne che […] Austria e Germania potevano darsi la mano nel favorire opere d’arte italiane che noi mandolinisti (dicevano essi) non conoscevamo né potevamo dare in luce. Per tal modo passarono alla storia le nostre migliori opere quali monumenti dell’arte musicale in Austria od in Germania.

[…] Ora a me sembra sia questo enorme inqualificabile errore che occorra correggere cominciando precisamente dai paesi e dalle anime redente.

[…] Quante cose vorrei dire a questo proposito. Ella mi ricorda che inter arma musae silent. Ebbene, con tutto il rispetto per chi ha pronunciato questa sentenza, io mi permetto di ricordare che così non la pensavano i Greci antichi, né gli Egizi né i Romani dell’epoca buona. E senza andare tanto lontano, non così credettero i Veneziani, che Lei deve sentire ed amare al pari di me, che, bresciano di nascita, mi sento tanto legato alla tradizione della Regina dell’Adriatico; non i Fiorentini in guerra, non i Genovesi, non i Pisani, gli Amalfitani, i Siculi e tutti gli altri popoli d’Italia. Non così sentì e praticò Napoleone I che in brevi anni sconvolse il mondo non soltanto in battaglie grandiose, ma precisamente nello stesso ordine sociale. Infatti fu sul campo di battaglia che egli decretò l’istituzione di tante Scuole e di tante Accademie, di teatri e di Pinacoteche.

[…] Ma quante cose belle, caro Professore, si potrebbero dire e mettere in luce: quanti ammaestramenti trarre dalle stesse violenze degli ormai palesi nemici, non soltanto nelle armi, ma pure nell’ordine spirituale ed intellettuale.

[…] ai nostri maggiori vorrei dire: l’eroismo suscitato dalla bella guerra è una grande rivelazione di virtù, di energia morale… ma non è tutto. Salviamo all’Italia il suo patrimonio morale: quello che l’ha guidata attraverso i secoli: che le ha permesso di esistere tutta intera nell’anima del mondo anche quando i nemici suoi l’avevano dilaniata. Prendiamo esempio dai stessi nostri nemici : essi si affermarono non soltanto con la disciplina delle armi, non soltanto coi commerci, con le industrie, con le banche: essi mandarono a noi perché ci ubriacassimo – facili noi all’esaltazione – i musicisti, i pittori, gli scultori, gli architetti, i poeti, i commediografi. E noi quasi sempre bevemmo grosso. Lasciamo i maggiori. Fui e sono adoratore di Bach, di Beethoven, di Wagner; ma tutto il resto venuto poi, buttato sul mercato nostro a danno delle nostre tradizioni e dei nostri migliori artisti, non lo dovevamo tollerare. Quindi, chi può, pensi e ricordi che una sacra fiamma arde da secoli sull’altare della Patria e che il non tenerla viva significherebbe, domani, una nuova minaccia di invasione nordica e di barbarie.

È necessario adunque compiere costì una assidua costante propaganda spicciola e fervida di italianità; far sentire a tutti il fascino di quella Italia vera e migliore che si agita poco lungi dai paesi redenti; di quell’Italia che fu tanto calunniata ma che sente desiderio imperioso di rigenerarsi e di purificarsi non soltanto pei sacrifici di sangue già eroicamente compiuti, a chi sappia e voglia ricordare che Atene, Roma, Venezia, Firenze, Pisa e Genova rimasero grandi attraverso la storia pei loro eroismi bellici, ma ancora per le loro virtù intellettuali e spirituali.

 

Tebaldini si era posto l’obiettivo, indotto da motivazioni ideali e dall’esperienza, di far conoscere ai giovani l’antica musica italiana fin dagli anni dell’insegnamento e della direzione del Conservatorio di Parma10.

Nelle Note illustrative, esposte e pubblicate in occasione della 1a Esercitazione pubblica degli alunni (2 giugno 1898) - in cui fu eseguita musica del secolo XVIII, con pezzi di Bassani, Scarlatti, Zipoli, Marcello, Vinaccesi, Lotti, Tartini e Galuppi - si legge:

La ragione pratica delle esercitazioni in cui si studi con criteri razionali la musica antica, per una scuola pari alla nostra dev’essere soprattutto didattica.

Far conoscere i più insigni compositori d’altro tempo, e non freddamente dalla sola classe di storia, ma spiritualmente per le opere loro, è una necessità che in un Conservatorio viene in oggi logicamente reclamata.

In diversa guisa appare ben difficile che agli alunni possa essere consentito d’imparare a conoscere le creazioni dei maestri d’altre epoche, e neppure di poter studiare nelle loro vere origini le diverse forme di cui s’abbella la più ideale delle arti, e si onorano le diverse scuole che la illustrarono.

 

E prosegue spiegando come sia più facile per gli studenti di letteratura o per quelli di artistica entrare in contatto con le opere del passato, mentre il compito è decisamente più arduo per la musica che presuppone assistere ad esecuzioni o addirittura impegnarsi in prima persona in esse:

Le pagine preziose degli antichi, pur studiate al tavolo, se non vengono animate dall’esecuzione, restano inesorabilmente privilegio di pochi e passano, nella storia, quasi direi dimenticate. […]

Conscio di questa necessità e per dovere morale, volle promuovere altre esercitazioni storiche, dedicandole soprattutto agli alunni, chiaramente divise per epoche e per scuole, in modo da contribuire all’educazione storica ed estetica dei giovani:

E poiché le nostre esercitazioni avranno di mira, soprattutto, lo studio intimo delle diverse gloriosissime scuole italiane che ancor oggi in una rinascenza feconda fanno amare ad altri popoli il caro nome d’Italia, io ho fiducia sorga presto l’alba di quel giorno felice in cui le vere tradizioni nostre saranno, non più fraintese né sconfessate dagli italiani stessi, ma religiosamente propugnate ed ardentemente sviluppate.

Successivamente, mentre attendeva all’applicazione del motu proprio emanato da Papa Pio X, in “Idealità lontane” - articolo apparso su “Cronache musicale e drammatiche” del 4 febbraio 1904 - affermava:

[…] in quelle melodie da tredici secoli palpita ininterrottamente tutta una vitalità musicale rimasta troppo a lungo ignorata alla maggior parte dei cultori delle stesse discipline musicali.

[…] Ed è altresì studiando l’arte italiana, non come semplice fatto storico, ma nelle sue qualità intrinseche, curandone l’esecuzione ordinata e razionale, che si potrà riuscire a stabilire nel concetto dei cultori, dapprima, e del pubblico, poi, l’importanza reale di talune riforme che la leggenda consacra quali conquiste di altri popoli, mentre, nel loro fondamento, appartengono sempre al dominio dell’arte nostra.

Se ci facciamo a considerare musicalmente la riforma luterana, la riforma melodrammatica fuori d’Italia, le nuove tendenze dei clavicembalisti e degli organisti attraverso i due secoli meravigliosi – il XVI ed il XVII – noi vediamo che dappertutto ed ovunque è sempre l’arte italiana che trionfa, che domina e che aggioga, preparando o sviluppando nei diversi paesi d’Europa nuove tendenze.

[…] Per riparare alle conseguenze funeste recate dallo stato di deplorevole abbandono in cui è lasciata la coltura artistica degli italiani – il popolo artista per eccellenza – non potrebbesi trovare miglior mezzo all’infuori dell’insegnamento progressivo e pratico delle discipline musicali, a cominciare dalle scuole primarie per giungere, grado a grado, alle secondarie e normali; infine, alle stesse Università? Tale insegnamento ordinato a preciso scopo didattico, coll’intento chiaro e determinato di ampliare la coltura artistica generale della nazione, dovrebbe riuscire senza dubbio a preparare un avvenire di migliore e più perfetta idealità, di più sane ed elevate aspirazioni artistiche e morali.

Troverà l’Italia un Ministro capace e volenteroso al punto da poter comprendere ed attuare, in questo campo, quella trasformazione educativa che, accolta e praticata dalle nazioni più civili d’Europa, ormai s’impone anche ad essa, per sentimento di dignità e di amor proprio, come per debito di gratitudine verso quei grandi che nel passato la onoravano per tutto il mondo?

Auguriamoci ancora, ed auguriamoci sinceramente che alle sagge ed illuminate iniziative altra volta caldeggiate dagli onorevoli Gianturco e Panzacchi, possa esser feconda una fiamma che ridoni gli antichi bagliori al firmamento dell’arte nostra.

 

Ma a Parma Tebaldini non fu compreso, perché voleva attuare riforme sostanziali, una didattica moderna, basata sulle esercitazioni pratiche e sulla cultura multidisciplinare; perseguire la formazione integrale della personalità degli allievi. L’istituzione della classe speciale di canto gregoriano e polifonia vocale, non fu da lui voluta e tenuta perché vicino al mondo clericale, né, tanto meno, perché era un reazionario. Rientrava nella convinzione che lo studio degli antichi maestri fosse efficace nella didattica moderna perché serviva a formare il gusto, a dare solide basi culturali, a penetrare quell’italianità tanto decantata da Giuseppe Verdi che, per essere compresa, richiedeva conoscenze non solo teoriche, ma soprattutto pratiche11.

Egli ben ricordava ne’ I nemici italiani della musica italiana (“Giornale d’Italia”, 21 ottobre 1915), come al Conservatorio di Milano, da lui frequentato, nessuno dei suoi maestri avesse mai accostato gli studenti, per esempio, al veneziano Zarlino12 che aveva dettato:

[…] monumenti di sapienza musicale quali le Instituzioni harmoniche (1558), né il Francesco Callegari che col Tartini e col P. Vallotti […] fu iniziatore di sistemi nei quali si potrebbe rintracciare il germe delle più recenti conquiste nel campo dell’armonia. Non certamente venne ricordato il P. Martini bolognese, pel magnifico Saggio di contrappunto fugato, né l’allievo suo P. Paolucci, maestro in Assisi, per quell’Arte pratica di contrappunto che in una scuola italiana non avrebbe dovuto essere occultata né ignorata. Neppure mi incontrai allora con un solo insegnante capace di lasciar intravedere ai propri allievi l’intima, profonda grandezza dei nostri sommi compositori apprendendo a’ suoi discepoli – poiché sperare nell’esecuzione sarebbe stato un sogno irrealizzabile – a decifrare e ad interpretare, nel dedalo delle vecchie partiture, i melismi superbi che con tanta dovizia di inspirazioni adornano ed illuminano di luce immortale le opere giganti di quei colossi.

Appunto per questo parecchi tra i giovani trasmigrarono, allora, oltr’Alpe, ove maestri quali il Rheinberger a Monaco, l’Haberl e l’Haller a Ratisbona, il Gevaert a Bruxelles, il Tinel a Malines, ed altri in diversi altri centri musicali, già avevano cominciato a spezzare il pane quotidiano dei loro insegnamenti plasmati sugli esempi tratti dalle opere dei compositori italiani, da Palestrina a Lotti, da Frescobaldi a Galuppi, da Monteverdi a Pergolese; e dove – altresì – gli editori e perfino i Governi ufficialmente avevano promosso e sostenuto le più grandiose pubblicazioni delle opere nostre. Fu così che i giovani di quel tempo, dalle loro peregrinazioni e dal loro soggiorno all’estero tornarono più italiani di quello che in realtà non fossero innanzi di partire, perché oltr’Alpe impararono a conoscere e ad amare l’Italia vera!

Ma avvenne questo strano fatto: che allorquando nelle scuole d’Italia parve penetrare il soffio rigeneratore dell’arte nostra purissima, un’onda di gretto conservatorismo – una routinerie ridicola e grottesca – per poco non travolse le stesse nuove energie. I maestri italiani fino ad allora ignorati, appresi alla scuola degli stranieri, parvero diventare altrettanti ostrogoti; il movimento di restaurazione, una fisima di importazione teutonica.

Si doveva continuare come in passato, dicevano cum juicio, i nostri ameni parrucconi; a muoversi cioè in un ambito di cento anni a dir molto, senza alcuna pretesa di voler scoprire, in orizzonti tramontati per sempre, le virtù di un’arte trapassata, inanimata, senza significato, e per fortuna – aggiungevano essi – morta e sepolta. Sì, perché secondo quei capi ameni, avendo l’arte camminato non poteva essa riguardare altrimenti al passato, né prossimo né remoto. Ed intanto in nome del progresso dell’arte i bravi pedagoghi patentati non arrivavano più a capire né Palestrina e né pure il Verdi del Falstaff. Fu così che la vera conoscenza dell’arte Italiana rimase per lunghi anni patrimonio dei tedeschi. Purtroppo!

[…] Che facevano intanto editori nostri per l’arte italiana?

Oh essi – all’infuori delle opere teatrali più fortunate e sicure, non avevano tempo d’occuparsi che delle canzonette napoletane. […]

Questi sono ricordi che occorre ritenere superati e vinti per sempre. Necessita nondimeno star molto attenti per sapersi correggere dai fatali errori del passato. Occorre soprattutto insegnare ai giovani forti e di buona volontà, che l’Italia, un tempo fu grande pur fuori de’ suoi confini naturali e che per ricondurla alle grandezze di altra volta necessità conoscerla fin là ove essa ha potuto far penetrare il suo santo nome con le più alte e nobili imprese.

[…] per essere noi stessi, come auspica Goffredo Bellonci, e più italiani, come augura l’amico Bach, occorre ricercare ed intendere anzitutto il senso arcano ma eloquente del linguaggio antico, del pari che sentire la sublime grandezza dell’anima nostra secolare là ove essa vibra, pulsa e freme tuttora di immortale bellezza, con la ferma volontà di compiere ogni sforzo per poter allargare – senza l’aiuto di interpreti e di chiosatori stranieri – il campo delle nostre indagini intellettuali e spirituali. E speriamo che ciò avvenga.

 

Nel 1917 sulle colonne della rivista “Musica” di Roma (nn. 17, 18 e 19), a seguito di un articolo di Giacomo Orefice13, si accese una polemica sul nazionalismo musicale, a cui parteciparono Adriano Lualdi14 e Tebaldini. Il primo, tra l’altro, confutava la tesi dell’Orefice che vedeva il nazionalismo musicale nella sola musica popolare e che affermava tendere, la colta, a perdere i suoi caratteri di nazionalità per assumere quelli dell’internazionalismo. Così Lualdi a Orefice:

[…] Egli  sostiene che la crisi c’è. Ella ammira certamente, tutti i nostri grandi che furono, ma non sente uscire da quelle tombe venerate nessuna voce potente, nessun incitamento preciso verso una precisa via.

[…] Io invece che sono un cieco e un illuso, io che non ho idee precise né concludenti, io credo di averle detto con sufficiente precisione e chiarezza quali siano e dove, secondo me, le tradizioni della musica italiana, e credo di averle dimostrato che, da Palestrina in poi, esse hanno sempre formato il nucleo profondo e immutabile della nostra arte; io che non ho idee precise né concludenti non mi faccio banditore di un nazionalismo nuovo, del quale non sento alcun bisogno ed al quale non saprei trovare nessuna solida base, e nego che una crisi vi sia, perché il nostro nazionalismo ed il nostro avvenire io li vedo nella sincera e religiosa fedeltà al nostro passato; e, io che sono un cieco guardo verso questo passato. E vedo tanta e sì sfolgorante luce e mi sento preso da tale commozione ed infiammato da tale ardore che non posso trattenere una parola di fede, di volontà, di amore! […]

 

Tebaldini ribatté, punto per punto, quanto espresso da Orefice. Dai due interventi vengono riproposti i passi più significati in relazione all’assunto:

[…] E qui mi lasci dire il maestro Orefice che, se la polifonia vocale palestriniana potesse ancora vibrare nell’intimo dell’anima italiana, se potesse divenire essa il pane quotidiano dei giovani musicisti nostri per virtù, non di una retorica scolastica, ma di assidue esecuzioni, allora forse, con questo mezzo precisamente si trarrebbe nuova linfa vitale per l’anemica e decaduta musica italiana. Forse – perché no? – dal tronco secolare germoglierebbero quegli stessi rami che potrebbero condurre alla fluorescenza di una scuola sinfonica nostra, così come apparve, incipiente, al principio del secolo XVII per opera di Giovanni Gabrieli.

Non sembri né strana né paradossale questa mia affermazione che dalla pratica costante, cioè della polifonia vocale palestriniana, possa scaturire una scuola sinfonica propriamente detta. Se i Conservatori e i Licei musicali; se le grandi Sale da concerto sapessero e volessero indirizzarsi risolutamente per questa via, in pochi anni se ne vedrebbero gli effetti: il vaticinio profetico di Giuseppe Verdi si avvererebbe, e l’Italia musicale sarebbe in grado di accogliere gli alfieri della musica sinfonica tedesca, francese e russa, facendo loro gli onori di casa, ma da pari a pari, senza alcun bisogno di prendere a prestito da essi né livree bardate, né fronzoli lucenti, né orpelli abbaglianti. Convengo col maestro Orefice là dove afferma che Palestrina sostituì l’arte musicale umana: l’arte espressiva, alle aride e fredde elucubrazioni dei compositori fiamminghi, ma io lo prendo alla lettera per ribattergli che Palestrina, che fu umano, non fu per nulla umanista, quindi, non esponente magnifico del Rinascimento – come egli dice, ma portatore bensì di quella reazione cattolica che sorse dal Concilio di Trento per frenare il dilagare dell’umanesimo e la minaccia del luteranesimo, e che sostituì l’arte propria, immaginosa e superba come una cattedrale trecentesca, all’arido artifizio dei compositori neederlandesi, sviluppando una spontanea evoluzione già iniziata e fecondata per opera dei musicisti compositori italiani che lo precedettero. E qui nomino ancora, e il Gafurio, ed il Festa, e lo Scandella, e il Contini, e l’Animuccia, per tacere di altri parecchi.

Sempre guidato dal criterio di negare attendibilità al principio fondamentale di una qualsiasi scuola musicale che abbia caratteri peculiari e nazionali […] il maestro Orefice asserisce che se gli italiani sono stati gli instauratori del recitar cantando di Emilio de’ Cavalieri, di Peri e di Caccini, come dello stile declamatorio di Monteverdi (concetto che si ricollega – dice lui – alle riforme straniere di Gluck e di Wagner) dovrebbero logicamente sconfessare tutta l’opera melodica posteriore, da Cimarosa a Bellini.

- Ma perché questo? – domando io. Se l’Italia ha avuto il merito di scoprire e di percorrere due vie diverse – entrambe ampie e luminose – per salire la vetta del Parnaso, per quale ragione dovrà essa abbandonare o l’una o l’altra solo perché vi si sono provati con fortuna, ma ben più tardi, anche gli stranieri? In nome di quale necessità storica e di quale criterio estetico si può questo sostenere? E perché Gluck e Wagner si sono appropriati dei principi dell’opera italiana secentesca, dovremo noi oggi rinunciare ai diritti di primogenitura su di quei princìpi fondamentali tre volte secolari?

[…] Quando i compositori di musica italiana di domani sapessero rifare la via accostandosi gli uni a Palestrina, gli altri a Peri, a Caccini ed a Monteverdi, i terzi a Cimarosa e Bellini, cosa significherebbe un tale fatto? Che o questi o quelli hanno rinunciato ad essere italiani solo perché di Palestrina, di Peri, di Caccini e di Monteverdi, come di Porpora, di Pergolese e di Cimarosa, si sono abbeverati a dovizia anche gli stranieri?

Ognuno di noi, al contrario, dovrebbe sentirsi altamente orgoglioso della fortuna toccata a questa nostra razza, la quale in qualsiasi linguaggio accingasi a parlare, può, se vuole, usare sempre dell’idioma italiano.

Gli è purtroppo che, in realtà, anche i così detti nazionalisti dell’ultim’ora, i quali per opportunismo mercantile – come dice bene il maestro Orefice – vanno predicando da qualche tempo contro l’influsso maligno della musica tedesca – mentre nulla hanno mai fatto per la musica italiana – si abbandonano fatalmente alla egemonia della musica francese e della russa – come ho detto al principio di questo scritto – pretendendo instaurare quella così detta ars nova di cui il Bernard aveva già fatto l’elogio quando scrisse appunto: - Il n’y a ni art ancien ni art modern: il y a l’art; c’est à dire la manifestation de l’idéal eternel!

Ed è detto bene; perché per questo aforisma appunto gli italiani possono e devono sentire che v’ha un’arte loro, tutta loro, malgrado gli oblii passeggeri, la quale è stata a lungo offuscata dalle nebbie dorate dell’esotismo, ma che non ha cessato mai di esistere in tutta la sua maestosa grandezza, in tutta la sua affascinante bellezza. […]

 

Ancora nel 1928, in “Rassegna Nazionale di Musica Città di Lodi”, ribadiva:

[…] Ormai questo criterio archeologico, nella rievocazione dei grandi maestri del passato, è stato superato. Noi intendiamo rivivere della vita d’un mondo che non ha limiti di tempo, né confini di spazio, né barriere spirituali di epoche considerate – dall’arida scienza – come sorpassate. Non desiderio di cultura, né ostentazione di dottrina ne sospingono. È l’anima del passato che noi cerchiamo di scrutare, di intendere e di immedesimare con la nostra per trasfonderla, vibrante della sua passione, in chi ci ascolta. …Come quando ci mettiamo innanzi ai dipinti di Giotto e di Beato Angelico; di Tiziano o di Tintoretto; di Pinturicchio o di Mantegna; del Luini o di Leonardo; di Michelangelo o di Raffaello; così innanzi ai musicisti cui andiamo accostandoci – da Palestrina a Carissimi; da Gabrieli a Lotti; da Frescobaldi a Scarlatti (parliamo di quelli cui ne è toccato in sorte di poter infondere momenti di riviviscenza) – vogliamo intendere il linguaggio arcano della loro anima. Nelle loro concezioni spirituali noi non iscorgiamo un’arte primitiva allo stato incipiente di formazione; noi sentiamo un’arte arrivata alla sua più ideale perfezione, al suo più alto grado di espressione del pari che per tutte le altre arti le quali resero grande il nostro passato dal Medioevo al Rinascimento […].

 

Il Maestro, nel 1942, a quasi ottant’anni, si mostrava sempre fedele ai princìpi che aveva saputo sviluppare e trasmettere. In sette puntate, apparse sul quotidiano “L’Italia”15, aveva ricostruito tutto ciò che era stato fatto, con tanto di luoghi, nomi e date, “per la resurrezione de la nostra musica”.

Sempre in quell’anno, per la “Rivista Musicale Italiana” di Bocca (a. XLVI, fasc. IV), in una ventina di  pagine dense di memorie, aveva dato i “rendiconti”. Tra l’altro riportava la seguente affermazione di Domenico De’ Paoli16:

Allo studio degli antichi venne ad aggiungersi la rinascita della musica liturgica che portò come conseguenza una rifioritura di studi sul canto gregoriano, ed infine, ultimo, ma non meno importante, il contributo degli studi sulla canzone popolare.

 

E ad essa ribatteva:

È bene rettificare a questo riguardo, che gli studi sul canto gregoriano in Italia datano dal Congresso di Arezzo del 1882, e che la riforma della musica sacra venne iniziata praticamente sin dal 1884, quindi che i primi, come l’altra, precedettero ogni movimento di restaurazione nel campo degli antichi maestri organisti, cembalisti, monodisti, ecc. e per logica deduzione che questa seconda restaurazione fu non causa, ma conseguenza della già iniziata riforma della musica sacra alla cui base stava tanto la resurrezione del canto gregoriano quanto quella della polifonia vocale. Questo diciamo per l’esattezza storica.

 

A proposito di tale scritto, Fedele D’Amico17 in Nota ad un equivoco (“La Rassegna Musicale”, a. XVI, n. 4, aprile 1943, pp. 117-19) fa rilevare che Gian Francesco Malipiero, studente di composizione, aveva dovuto “scoprire” da sé i veneziani del Cinque e Seicento perché aveva avuto insegnanti che erano “volti tutti a una didattica tedesca”. Infatti, “l’opera del Tebaldini era, in quegli anni, ancora solitaria e osteggiata”, perciò chi non era suo allievo doveva faticosamente andare incontro a un patrimonio nascosto sotto la polvere dei secoli.

Tebaldini riteneva che potevano coesistere l’amore per gli antichi e l’attaccamento al melodramma. E questo spiega la sua amicizia e la stima per Verdi.

D’Amico conclude:

Nessuno ha voluto disconoscere i meriti del Tebaldini né dei mondi a lui giustamente cari. Egli ci parla del suo ideale; quello di cui oggi tanti – ma alquanto in ritardo – si son fatti campioni e banditori. Perché in ritardo? Solo perché nacquero in ritardo? […]

E invece proprio l’avvento di questi “ritardatari”, proprio lo sviluppo e l’accrescimento in tante e tante nuove direzioni di quell’ideale, testimonia la bontà di quest’ideale. Proprio per il fatto che tanti oggi ripetono e sviluppano in vario senso gl’impulsi avviati dal Tebaldini, al Tebaldini possiamo oggi riconoscere il titolo di precursore coraggioso e fecondo. […]

 

Come ebbe a dire Dioscuro18, la vita di Tebaldini “fu tutta una battaglia di italianità”. L’articolato concetto ne permeava tutta l’opera, supportata da scritti di ‘propaganda’ su giornali e riviste, dall’attività di insegnante, critico musicale, conferenziere. E, almeno in una certa misura, l’ha trasmesso ai suoi discepoli, in primis al suo pupillo Ildebrando Pizzetti. Lo dimostrano le riconoscenti ammissioni di quest’ultimo, i tangibili echi dei suoi insegnamenti. Poi Pizzetti, senza ignorare i canoni della migliore tradizione, ha sviluppato un discorso originale, con indubbie qualità di compositore, critico e poeta, facendo rinascere anche il dramma in musica, dando continuità pure all’azione di Giuseppe Verdi. Per dirla con Fiamma Nicolodi19, usò “l’antico come antidoto contro la decadenza e la corruzione musicale del presente (generalmente l’opera post-verdiana e verista, ma anche la musica tedesca)”.

Se tutto questo è vero, ne consegue che era stato Tebaldini il principale artefice dell’italianità di Pizzetti. Né si può sostenere che la collaborazione del musicista col poeta Gabriele D’Annunzio (il più ‘musicale’ dei poeti italiani) si sia basata su una comune matrice politica, piuttosto sull’importanza che entrambi davano alla letteratura e alla musicalità della parola. Peraltro, anche D’Annunzio era un estimatore dei grandi del passato20.

Era inevitabile che la formazione culturale, la vocazione spirituale e gli ideali di Tebaldini; la sua didattica, l’azione teorica e pratica - espletata con passione, competenza e senso civico, con ogni mezzo e in ogni sede istituzionale o privata, per il recupero della nostra migliore tradizione - in quel particolare momento trovassero in Pizzetti stimoli fondamentali per la definizione della sua poetica neoclassica nella continuità storica che sfociava, appunto, in una rivitalizzazione dell’italianità. Lo provano inequivocabilmente i caratteri della sua produzione e gli studiosi che ne hanno analizzato la genesi. Tutti hanno riconosciuto la determinante influenza degli speciali insegnamenti di Tebaldini sulle tendenze culturali e morali del giovane che favorirà lo sviluppo delle sue capacità musicali, critico-letterarie e poetiche, fino a far emergere pienamente la sua personalità nei primi decenni del Novecento.

Adelmo Damerini21, nella conferenza su “Il Novecento italiano”, tenuta a Piacenza nel febbraio 1932, pronunciò queste parole:

[…] Se di precursori è lecito parlare, meglio che il gruppo martucciano che ho più sopra escluso da questa funzione, si deve ricorrere più logicamente a due musicisti e a un didatta precorritore dei tempi: cioè a Lorenzo Perosi, a Ermanno Wolf-Ferrari e a Giovanni Tebaldini.

[…] Quanto a Giovanni Tebaldini egli svolgeva già, fra il 1897 e il 1900, un’opera oltremodo salutare come insegnante nelle mura del Conservatorio di Parma di cui era direttore, restaurando lo studio del Canto gregoriano, rivelandone le bellezze imperiture e la sua capacità a fecondare lo spirito moderno, e richiamando gli allievi all’amore e allo studio della polifonia classica.

Opera quella del Tebaldini, tanto più apprezzabile in quanto esercitata in un ambiente da cui egli ebbe incomprensione, derisione e dolori molti. Ma il suo seme non fu gettato invano; dalla sua scuola di alti insegnamenti doveva uscire – fra gli altri – Ildebrando Pizzetti, che da quel momento doveva trarre in gran parte la elevatezza della sua attività artistica, che per questa intonazione di alti spiriti, sta al di sopra di tutta la produzione musicale italiana moderna e forse non solo italiana. […]

 

Il Maestro Enrico Magni Dufflocq22, che nel 1933 nella “Storia della Musica”, edita dalla S.E.I. di Milano, aveva curato il capitolo “La musica contemporanea”, spiegando perché “certa musica del Pizzetti può suonare diversa dalle altre”, scriveva a Tebaldini (Milano, 10 novembre 1942):

[…] E voi avete fatto in Italia quello che lui [César Franck] ha fatto in Francia. Avete preparato un’epoca! Non lo dico per adularvi. Lo dico per fermissima convinzione. E non dubitate Maestro: intorno al falso mondo musicale de’ giorni nostri il medesimo convincimento si fa strada ogni giorno e conquide via via la massa.

Si sa, oggi, che mentre il povero Martucci apriva la strada alle nuove idee con la sua bacchetta, voi, non proprio solo, ma con una forza superiore a quella di qualsiasi altro, preparavate nelle menti dei giovani la resurrezione dello spirito antico, la capacità di comprendere il genio del cinquecento e di muovere dai risultati che esso ebbe conseguito, a nuove conquiste.

Tutti sappiamo che se il Pizzetti è diverso dai suoi contemporanei, lo deve unicamente a Voi. Questo mio tutti è forse un poco esagerato, ma soltanto perché un poco prematuro.

Io non posso – maestro caro – assicurarVi che i grandi riconoscimenti vi siano assicurati Voi vivente: troppo il mondo è distratto da avvenimenti superiori alla volontà dei buoni. Ma vi giuro che non mancherà. E vi faccio solenne promessa che – per quanto potrò – io sarò sempre apostolo del vostro valore e del vostro merito – permettetemi l’aggettivo – franckiano, da maestro sommo e venerabile, da pioniere misconosciuto e tormentato, ma trionfante. Perché – ve lo ripeto – Voi siete un trionfatore: magari senza squilli e senza bandiere, ma non meno vero e grande. […]

 

Nel volume La crisi musicale italiana (1900-1930) (Ed. Hoepli, Milano, 1939) Domenico De’ Paoli dice:

[pp.39-40] La moderna scienza degli studi storico-musicali riscontra certamente degli errori in quelle prime edizioni nostrane [improvvisazioni, approssimazioni, talvolta confusioni], delle opere d’antichi maestri italiani, tuttavia esse rivelarono [con le opere dei maestri dei secoli XV, XVI e XVII] l’esistenza di una grande tradizione italiana [dimenticata] e le qualità di questa tradizione. […]

Servirono ugualmente a taluni insegnanti (non molti, purtroppo) per rivelare ai giovani musicisti i capolavori italiani dei secoli d’oro, offrendo loro al tempo stesso, il più efficace antidoto contro l’influenza dell’accademismo tedesco, e contro la retorica del lirismo teatrale.

Occorre qui ricordare l’opera di un Tebaldini a Parma e d’un Wolf-Ferrari a Venezia?

 

E più innanzi:

[pp. 58-9] Dato l’indirizzo degli studi musicali nei primi anni del nostro secolo, è molto probabile che uno solo dei giovani d’allora potesse vantare una conoscenza diretta ed abbastanza approfondita [- almeno quanto lo permettevano le pubblicazioni di cui si poteva disporre -] dell’opera dei compositori italiani dei secoli XV, XVI e XVII. [(polifonisti vocali e madrigalisti)]; era Ildebrando Pizzetti iniziato a tale studio (come a quello del canto gregoriano) da Giovanni Tebaldini. Tutti gli altri musicisti suoi coetanei avevano ricevuto una educazione musicale prevalentemente filo-germanica.

 

E ancora:

[p. 62] nelle musiche per [La] Nave si mostra l’assimilazione del canto gregoriano. Tale assimilazione, in quel periodo, era più facile a Pizzetti che a qualunque altro de’ suoi colleghi, perché – l’abbiamo già detto - unico della sua generazione aveva trovato un maestro (povero paria [aggiunta di Tebaldini]) che l’aveva iniziato per tempo all’antica musica italiana ed al canto gregoriano; era il solo dunque che all’insegnamento ufficiale filo-germanico potesse opporre una reazione cosciente fondata sullo studio dei nostri antichi maestri23

 

Nel volume Parma Teatrale Ottocentesca (Ed. Casanova, Parma, 1946) Mario Ferrarini24 affermava:

Ora non è molto, nella Tribuna di Roma, Mario Rinaldi sosteneva la tesi della italianità di Pizzetti. Ed infatti, dall’uso delle tonalità gregoriane nella armonizzazione; dalla ricca, fastosa polifonia corale a fazioni indipendenti, al recitar cantando dei suoi personaggi lirici, tutto, nel compositore parmense, induce a rilevare come egli appaia il più audace rievocatore della genuina tradizione italiana, quale la idearono i primi iniziatori del melodramma, che lo stesso docente del Pizzetti, il Tebaldini – su altra sponda – resuscitava dando nuova vita alla secentesca Rappresentazione d’Anima e Corpo di E. de’ Cavalieri e ad Euridice di Peri e Caccini. […]

E forse un giorno la storia della musica Italiana ricorderà che dalla Scuola parmense, negli ultimi anni del secolo XIX – pur combattuta e quasi soffocata – si fece ascoltare una prima voce, additante la via tuttora incerta di un rinnovamento dell’arte nostra, la quale intesa da uno solo e da questo non più vox clamantis in deserto con largo respiro diffusa, - riuscì a creare l’edifizio della nuova estetica: quella che ormai viene riconosciuta, definita e ammirata: l’estetica pizzettiana.

 

E il concetto di italianità, diffuso da Tebaldini nel contesto culturale di quegli anni, inculcato a Pizzetti che proseguì in quella direzione con innovazioni e una propria identità, era passata, per il suo tramite, anche in musicisti della generazione successiva. Un esempio per tutti, quello del napoletano Mario Pilati25 che aveva avuto intensi rapporti con Tebaldini e Pizzetti, di cui era profondo estimatore.

 

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Note

1.   Per la figura e l’opera del Maestro vedi, in particolare, le sezioni “Cronologia” e “Biografia” di questo sito.

 

2. Florimo Francesco (San Giorgio Morgeto, 1800 – Napoli, 1888), direttore dell’Archivio Musicale del Conservatorio di Napoli, pubblicò opere storiografiche divenute molto note: La scuola musicale di Napoli e i suoi Conservatori (1884), una biografia di Bellini (1882)... Scrisse a Verdi per invitarlo ad assumere la carica di direttore del Conservatorio di Napoli, ma il Maestro da Genova, il 5 gennaio 1871, gli rispondeva dicendosi dispiaciuto di non poter accettare: “[…] immaginate se io sarei fiero di occupare quel posto dove sedettero fondatori di una scuola Alessandro Scarlatti, e poscia Durante e Leo. Mi sarei fatta una gloria (né in questo momento sarebbe un regresso di esercitare gli alunni a quegli studii gravi e severi, e in così chiari, di quei primi padri. Avrei voluto, per così dire, porre un piede sul passato e l’altro sul presente e sull’avvenire… ché a me non fa paura la musica dell’avvenire. Avrei detto ai giovani alunni: - Esercitatevi nella fuga costantemente, tenacemente, fino alla sazietà, e fino a che la mano sia divenuta franca e forte a piegar la nota al voler vostro. Imparerete così a comporre con sicurezza, a disporre bene le parti ed a modulare senz’affettazione. Studiate Palestrina, e pochi suoi coetanei; saltate dopo a Marcello, e fermate la vostra attenzione specialmente sui recitativi. Assistete a poche rappresentazione delle opere moderne, senza lasciarvi affascinare né dalle molte bellezze armoniche ed istrumentali, né dall’accordo di settima diminuita, scoglio e rifugio di tutti noi, che non sappiamo comporre quattro battute senza una mezza dozzina di queste settime. Fatti questi studii, direi infine ai giovani: Ora mettetevi una mano sul cuore: scrivete; e (ammessa l’organizzazione artistica) sarete compositori… in ogni modo non aumenterete la turba degli imitatori e degli ammalati dell’epoca nostra, che cercano, cercano e (facendo talvolta bene) non trovano mai. Nel canto avrei voluto pure gli studii antichi uniti alla declamazione moderna.

 

    Per mettere in pratica queste poche massime, facili in apparenza, bisognerebbe sorvegliare l’insegnamento con tanta assiduità, che sarebbero pochi, per così dire, i dodici mesi dell’anno. Io che ho casa, interessi, fortuna, tutto, tutto qui, domando a voi stesso, come potrei farlo?

 

    Vogliate dunque, caro Florimo, essere interprete del mio grandissimo dispiacere presso i vostri colleghi ed i tanti musicisti della vostra bella Napoli, se io non posso accettare questo invito tanto onorevole per me. Auguro trovate un uomo, dotto soprattutto e severo negli studii. Le licenze e gli errori di contrappunto si possono ammettere e sono belli talvolta in teatro, in conservatorio no!… TORNATE ALL’ANTICO E SARA’ UN PROGRESSO. [...].[Cesari Gaetano e Luzio Alessandro (a cura di), I Copialettere di Giuseppe Verdi, Commissione Esecutiva per le Onoranze a Giuseppe Verdi, Milano, 1913, pp. 232-33; “L’arte pianistica”, a. 1, n. 22, Napoli, 15 novembre 1914; Franco Abbiati, Verdi, Ed. Ricordi, Milano, 1969, vol. III, pp. 355-56].

 

3.   Giovanni Tebaldini, Verdi e Wagner, in “Verdi. Studi e Memorie” di AA.VV., a cura del Sindacato Nazionale Fascista Musicisti nel XL anniversario della morte, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1941, pp. 157-75; anche in Idealità Convergenti – Giuseppe Verdi e Giovanni Tebaldini (ricordi saggi testimonianze commenti), a cura di Anna Maria Novelli & Luciano Marucci, D’Auria Editrice, Ascoli Piceno, 2001, pp. 315-33.

 

4.   Confalonieri Giulio (Milano 1896 – ivi 1972), laureato in lettere, studiò musica e compose l’opera Rosaspina, brani da camera, commedie musicali e balletti. Revisionò lavori di Scarlatti, Cimarosa e Cherubini. Come musicologo pubblicò Bruciar le ali alla musica (Rizzoli, 1945) e una Storia della Musica (Nuova Accademia, 1958), ristampata da Sansoni/Accademia nel 1968. Ha collaborato a varie testate, tra cui “7Giorni” (Rizzoli).

 

5.  Tebaldini era il critico musicale de “La Lega Lombarda”. La sua recensione, piuttosto negativa, sulla Messa di Fumagalli apparve nell’edizione del 10-11 febbraio 1886, nella rubrica “Arte ed Artisti”. Il Professore se ne risentì al punto da farlo espellere dal Conservatorio.

 

6.   La polemica tra Tebaldini e il Professor Giuseppe Angelini di Venezia, a proposito della musica sacra di Charles Gounod, si svolse nel giugno 1893 sulle colonne de’ “La Lega Lombarda”, coinvolgendo anche altre testate tra cui “La Scuola Veneta di Musica Sacra”, diretta dallo stesso Tebaldini.

 

7.        Tebaldini tradusse in notazione moderna e/o ridusse composizioni di maestri del XVI – XVII secolo dagli antichi codici della Biblioteca Marciana di Venezia, dell’”Antoniana” di Padova, del Conservatorio di Bologna, dell’Archivio della Santa Casa di Loreto. Nel 1895 diede alle stampe il volume L’Archivio Musicale della Cappella Antoniana in Padova e nel 1921 L’Archivio Musicale della Cappella Lauretana.

 

8.   Nel luglio successivo Tebaldini fece all’Ateneo di Brescia, sua città natale, una donazione “di circa 200 volumi tra opere musicali e libri riguardanti la musica, resi più preziosi dalle dediche autografe rivolte al Maestro bresciano da scrittori e musicisti, dei quali, taluni, di fama mondiale”, testi autografi delle sue conferenze ed altri materiali relativi alla sua attività.

 

9.   La stampa locale e non si interessò ampiamente del Concerto Storico: Da una platea all’altra. Il Concerto Storico, “La Gazzetta di Venezia”, 20 marzo 1891; G. di Mugrensano, Il Concerto Storico, “La Gazzetta di Venezia”, 21.3.1891; Munaro Toni, ...(dati mancanti), “La Venezia”, 21.3.1891; Ravanello Oreste, Notizie e corrispondenze - Venezia - Concerto Storico di Musica Veneziana del Secolo XVII, “Musica sacra”, a. XV, n. 4, Milano, aprile 1891, pp. 61-2; Righetti Aldo, Arte e Teatri – La musica a Venezia, “L’Adriatico”, 20.3.1891; Id, Arte e Teatri – Concerto storico veneziano di musica secentesca”, “L’Adriatico”, 21.3.1891; P.[ietro] F.[austini], Concerto storico di musica sacra al Liceo Benedetto Marcello - Notizie, “Gazzetta Musicale di Milano”, a. XLVI, n. 13, 29.3.1891, pp. 216-17.

 

10.  In “Musica d’oggi” del luglio 1930 Adelmo Damerini, nell’articolo Il R. Conservatorio di Musica “A. Boito“ in Parma, così si esprimeva:

 

      Giovanni Tebaldini, il quale, valendosi della sua vasta cultura, del suo squisito senso dell'arte, della operosità retta e ardente, fece vibrare il Conservatorio di una vita nuova tutta protesa verso problemi d'arte che dovevano poi formare l'ansia dei tempi futuri.[…] nessun mezzo fu trascurato per infiammare gli animi degli alunni dell'amore dell'arte e in ispecie dell'arte italiana.

 

      Ancora, Mario Ferrarini in Parma Teatrale Ottocentesca annotava:

 

      Giovanni Tebaldini […] è stato, senza far torto ad alcuno, il più completo e il più alacre fra quanti musicisti, pur di chiara fama, furono a capo del nostro glorioso Istituto Musicale. Egli ebbe, come direttore, per il carattere adamantino, per la serietà di indirizzo negli studi e per la fermezza incrollabile nell’adempimento del proprio dovere, qualità superiori. E furono anni d’oro per il conservatorio quelli della sua appassionata direzione. Ma se a Parma lo amavano gli alunni ed anche quella parte di professori artisti e non mestieranti che era ligia al dovere, non fu dai più compreso ed apprezzato come si meritava e come avrebbe voluto, sopra tutti, Giuseppe Verdi. Egli era un’illustrazione degli studi di musica sacra, egli lottava – e giustamente – per la risurrezione, nei conservatorî, del Canto gregoriano, e invece un’ondata stupida di anticlericalismo, che con l’arte nulla aveva a che vedere, inquinò, in quel momento, l’indirizzo e lo studio più serio di quella fondamentale musica del Palestrina e dei nostri compositori dei secoli XV, XVI e XVII (polifonisti vocali e madrigalisti), che è purissimo patrimonio italiano. Non fu compreso, e, per sventura sua e del nostro Istituto, Verdi morì proprio in quegli anni. È certo però che se Ildebrando Pizzetti eccelle oggi sugli altri musicisti italiani, ed è così diverso dai suoi contemporanei, ciò si deve sopratutto agli insegnamenti di Giovanni Tebaldini.   

 

11.  Nel 1894, in “Musica Sacra” del 4 marzo, Giovanni Tebaldini affermava: “Giuseppe Verdi, non è molto, scriveva ad Hans von Bülow, invocando il ritorno all’arte di Palestrina in nome delle vere tradizioni italiane… tali parole avranno confuso quelli che nel celebre ritorniamo all’antico… non avevamo ravvisato che il consiglio di ritornare addietro qualche diecina d’anni. Ma le parole della nostra maggior gloria musicale devono esprimere a sufficienza per i giovani. Nell’arte di Palestrina è riposto il segreto dell’avvenire musicale d’Italia. Questo precetto dovrebbe essere scolpito nelle aule dei nostri Conservatorii”.

 

12.  Zarlino Gioseffo (Chioggia, 1517 – Venezia, 1590), teorico musicale e compositore. Nel 1541 si trasferì a Venezia, dove divenne allievo di A. Willaert. Nel 1565 fu nominato maestro di Cappella in San Marco, incarico che tenne fino alla morte. Cultore profondo di studi teologici e umanistici in genere, maestro di grande prestigio, buon compositore (pubblicò, fra l’altro, raccolte di mottetti e 13 madrigali in antologie varie), Z. è noto soprattutto come teorico. Tre opere fondamentali testimoniano di questa sua attività: Istitutioni harmoniche (1558), Dimostrationi harmoniche (1571), Supplimenti musicali (1588).

 

13. Orefice Giacomo (Vicenza, 1865 – Milano, 1922), compositore e pianista. Studiò al Liceo Musicale di Bologna, diplomandosi nel 1885. Nel 1904 fondò a Milano la Società degli Amici della Musica, di cui fu presidente per molti anni. Nel 1908-‘09 fu direttore artistico del Teatro Costanzi di Roma. Dal 1909 fu professore di composizione al Conservatorio di Milano, dove, fra gli altri, ebbe come allievi V. De Sabata, M. Abbado, L. Rocca. Collaboratore della R.I.M. e di altri periodici, fu dal 1920 anche attivo come critico musicale de’ “Il Secolo” di Milano. Nel 1920 fondò la Scuola musicale di Como.

 

14. Lualdi Adriano (Larino, Campobasso, 1885 – Milano, 1971), compositore, direttore d’orchestra, critico. Studiò prima a Roma, poi a Venezia con Wolf-Ferrari. Diplomatosi nel 1907, iniziò giovanissimo l’attività direttoriale, dedicandosi anche alla composizione. Tra le sue opere per il teatro: Le furie di Arlecchino (1915); Guerrin meschino (1920), Il diavolo nel campanile (1925). Ha composto anche musiche corali, da camera e per orchestra. Fu critico musicale di riviste e quotidiani e tra i primi organizzatori del Festival di musica contemporanea a Venezia.

 

15. Un nido di memorie... [rievocazioni personali in sette puntate], “L’Italia”, Milano: I La vecchia storia  dimenticata appare ancora interessante...,10 giugno; II Una polemica contro organisti e organari..., 11 giugno;  III Lotte musicali e politiche, 12 giugno; IV Dalle “improvvisazioni” di Pavia all’adunanza di Soave, 13 giugno; V Fervore di riforme... e di polemiche,16 giugno; VI Sfilata dei più bei nomi, 17 giugno; VII Primavera dell’arte sacra musicale, 20 giugno.

 

16. De’ Paoli Domenico (Valdagno, Vicenza, 1894 – Roma, 1984), critico musicale. Tra i suoi saggi si ricordano Stravinskij (1935), La crisi musicale italiana (1939) e C. Monteverdi (1945). Di quest’ultimo pubblicò anche Lettere, dediche e prefazioni (1973).

 

17. D’Amico Fedele (Roma, 1912 – ivi, 1990), musicologo, figlio del critico teatrale Silvio. Allievo di Casella per composizione e pianoforte, fu attento, come critico, alla produzione contemporanea. Docente all’Università di Roma, era organizzatore di eventi culturali. Ha pubblicato monografie su Mussorgskij (1942), Petrassi (1942) e la raccolta di saggi I casi della musica (1962).

 

18.  Dioscuro è lo pseudonimo di un giornalista di Napoli ancora non identificato, che scrisse l’articolo Alessandro Scarlatti, “La Nuova Rivista”, Napoli, maggio-giugno 1919, pp. 20-3.

 

19. Nicolodi Fiamma (Roma, 1948 – vive a Firenze), musicologa. Docente all’Università di Salerno e attualmente in quella di Firenze, ha dedicato studi e ricerche alla musica italiana del primo ‘900. Ha pubblicato, oltre a vari saggi, i volumi Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia (1982), Musica e musicisti nel ventennio fascista (1984). Inoltre, ha curato l’edizione degli scritti di L. Dallapiccola, Parole e musica (1980).

 

 20. In compagnia di Eleonora Duse, negli anni 1890-’94 in cui Tebaldini dirigeva il coro della Cappella di San Marco a Venezia, il poeta era spesso nelle prime file dei banchi della Basilica, rimanendo estasiato dalle esecuzioni delle messe palestriniane e di altre composizioni di autori della Scuola Veneta. 

21.  Damerini Adelmo (Carmignano di Firenze, 1880 – Firenze, 1976), diplomato in composizione nel 1918, ha prodotto una  Messa, molti Mottetti, Salmi, Inni e Sequenze eseguiti spesso nella cattedrale di Pistoia. Ha scritto articoli di critica su quotidiani come “La Nazione” e “Avanti!” e su diverse riviste. Insegnò Storia della Musica al Conservatorio di Palermo e fu bibliotecario di quella scuola, per passare poi, con lo stesso incarico, nei Conservatori di Parma e Firenze. Ha scritto spesso di Tebaldini e la prefazione al suo libro su Pizzetti del 1931. 

22.  Magni Dufflocq Enrico, critico musicale, corrispondente ed estimatore di Tebaldini. 

23. Le sottolineature sono di Tebaldini.

24. Ferrarini Mario (Parma, 1874 – ivi, 1950), figlio del famoso direttore d’orchestra Giulio Cesare, fu appassionato di lirica e raccoglitore di antiche memorie teatrali. Svolse la professione di avvocato; fu anche giornalista e critico d’arte. Aggregò una parte dei suoi scritti di argomento musicale in Parma Teatrale Ottocentesca. Negli anni 1897-’98 fu segretario e amministratore generale del Teatro Regio di Parma per il quale organizzò apprezzate stagioni liriche e le rappresentazioni per il Centenario Verdiano del 1913. Ha lasciato alla Biblioteca Palatina e al Comune di Parma una mirabile raccolta storico-teatrale con oltre seicento libretti d’opera, migliaia di manifesti, carteggi e incisioni. 

25. Pilati Mario (Napoli, 1903 – ivi, 1938), studiò al Conservatorio “San Pietro a Majella” di Napoli diplomandosi in composizione. Docente prima al Conservatorio di Cagliari, poi in quello di Milano, tornò nella sua città come professore di contrappunto dell’Istituto in cui aveva studiato.  Passò, quindi, a Palermo. Fu anche compositore di brani per orchestra, per pianoforte e di musica da camera. Come critico musicale collaborò a quotidiani e periodici. Fu legato da profonda amicizia e stima a Tebaldini, al quale nel 1929 dedicò un significativo studio per il “Bollettino Bibliografico Musicale” (pp. 1-29).

 

     a cura del Centro Studi e Ricerche “Giovanni Tebaldini”

 

 

 

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