GIOVANNI TEBALDINI

e la riforma della musica da chiesa

 

Se il mio egregio amico sapesse che io tento di delineare in questa ospitale Gazzetta la sua fisionomia artistica come Pompeo Molmenti fece pochi mesi orsono per le sue varie vicende della vita, non dubito che egli mi pregherebbe di deporre la penna e  d’occuparmi d’altro che della sua persona.

Se non ché per lo scopo che io mi prefiggo, preferisco che si scatenino sul mio capo le sue ire per non lasciarmi sfuggire l’occasione di parlare d’un artista, che in quest’epoca sì povera d’ideali, consacrò tutta la sua vita alla realizzazione d’un alto fine, senza badare né alle accanite lotte che dovette sostenere, né alla ricompensa che gliene venne.

Di Tebaldini il pubblico, seppure ciò si può dire, conosce alcune delle sue opere di musica da chiesa, e fra queste le minori. Il resto è appena noto a pochi amici, ai quali ad ore perdute nell’intimità, quasi per ischerzo e dopo essersi invano schernito, l’autore fece udire le sue composizioni profane. La sua opera drammatica [Fantasia araba], che egli scrisse nei tristi ozî di Sicilia, andò a finire nel caminetto. Alcune delle sue Canzoni, e forse le migliori, nate in qualche momento felice d’estro quasi per riposare la mente dagli studî severi, non esistono che nella memoria dell’artista o appena abbozzate sulla carta. Ma chi ebbe la sorte di conoscerle, sa quanta ispirazione, quanta anima, quanto sentimento poetico esse contengano, e perplessi domandansi gli amici, come fosse possibile che chi per l’arte mondana sembra dalla natura predestinato, abbia potuto rinunciare ai facili e sicuri successi per non servire che ad una bensì alta missione, la quale però per l’andazzo dei tempi e la sua speciale natura non può essere compresa che da pochi.

Per capire di quanta saldezza di principî, di quanto coraggio abbia abbisognato il nostro campione, dobbiamo trasportarci a tempi a noi ancor vicini, quando egli si decise a dedicarsi alla musica da chiesa.

In quale basso e vile stato questa allora si trovava è noto a tutti. Né gli studî eran - e nol sono neppure oggi – tali, che avessero almeno fatto riconoscer lo stato di assoluta decadenza e prostrazione dell’arte sacra di allora. È vero, che le prime scaramucce avevano avuto luogo, ma l’eco di quelle fucilate s’era perduta nella noncuranza generale.

E fu allora che più per istinto e intuizione che per vera conoscenza delle cose e per studî seri e profondi, il Tebaldini decise consacrarsi a quell’arte tanto decaduta e che scelse la strada di spine che gli si apriva dinanzi. Ma egli non era uomo da sgomentarsi dinanzi le difficoltà, ché anzi queste gli raddoppiavano il coraggio e gli facevano apparire più meritevole il suo apostolato e più alta e nobile la sua meta. Per quale strada egli sia passato, come il suo ideale si sia depurato, come egli sia venuto sempre più avvicinandosi  alla realizzazione dei suoi conati, ciò lo mostrano le sue opere dalle prime ancor incerte e promettenti, scritte a Ratisbona, fino al Requiem per Re Vittorio Emanuele [II] e la Cantata per il Giubileo di Papa Leone XIII.

Per quanto io abbia sempre condiviso i principî ceciliani e fattone propaganda, non credetti mai ad una vera resurrezione della musica da chiesa, il cui ideale sono per me unicamente le opere dei grandi maestri classici italiani.

Lo sperare che ritorni ancora il tempo, in cui quelle opere non solo verranno eseguite, ma comprese dalla comunità dei fedeli, mi sembrò sempre un’utopia. Ma se alcuno fosse capace di farmi ricredere di questa mia opinione, certo che sarebbe Tebaldini con le sue opere. […]

Lo studio delle opere di Tebaldini ci porge una guida per comprendere come e fino a qual punto sia possibile conciliare questa contraddizione apparente o reale. In arte una delle prime condizioni è la sincerità, l’intima persuasione della giustezza dei principî abbracciati. Tebaldini non ha soltanto studiate le opere dei classici ed appropriatosene la loro arte, ma egli è entrato nel santuario delle stesse, se ne è intimamente immedesimato; sono diventate carne della sua carne, sangue del suo sangue. È un’utopia credere che Palestrina scrivendo le sue Messe, i suoi Mottetti si sia trovato in rapimento estatico religioso. Ma ciò che forse non fu, può diventarlo per suggestione nella mente dell’artista moderno. Tebaldini, studiando Palestrina, sente quello che secondo la sua opinione e la sua coscienza d’artista cattolico avrebbe dovuto sentire e provare l’autore, ciò che torna allo stesso. Da questa compenetrazione del genio altrui ne è sortita un’anima d’artista ideale, che convive cogli spiriti alti dei secoli passati e ne sente tutta la poesia e l’ineffabile dolcezza ed ispirazione.

Bisogna sentire Tebaldini suonare Palestrina per capire quanto egli lo comprenda. L’uditore dimentica il miserabile pianoforte, che non sa rendere se non una minima parte del contenuto dell’opera, intuendo quel tanto che resta latente e trovandolo nella faconda e calda parola del suonatore, che s’arrabbatta cantando or una or l’altra parte onde farne comprendere le bellezze. Altra splendida prova del suo intelletto artistico egli ha fornito nel suo stupendo Studio su Palestrina, pubblicato nella nuova Rivista Musicale di Torino, uno dei migliori e più profondi fra gli innumerevoli dell’anno scorso.

Né Tebaldini crede necessario ed utile il rinunziare alle conquiste dell’armonia e dell’arte musicale moderna in genere per ritornare alle pure fonti. Non sono già le tonalità antiche né i contrappunti semplici e doppi, i canoni al rovescio, che fanno delle opere dell’epoca aurea quello che esse sono e perennemente saranno. L’arte per l’arte sarebbe una ben meschina conquista, se fosse questo il frutto della riforma della musica da chiesa. Lo spirito, l’idealità, questo è quello che noi dobbiamo imparare ad imitare in quelle opere.

[…] Tebaldini non è solo conscio di queste supreme leggi che valgono per la musica da chiesa, ma si trova altresì in una condizione tale, che gli permette d’avvicinarsi agli ideali dell’arte religiosa. Egli non vuole scrivere musica liturgica perché la sua posizione sociale lo richiede, ma lo deve, perché dinanzi alla sua mente s’affacciano i ricordi d’altri tempi lontani, in cui per volontà del popolo unanime s’innalzarono alla Divinità templi grandiosi e stupendi, perché la sua viva fede sogna altri tempi in cui l’indifferentismo religioso cesserà e perché alla potenza dell’arte vera e grande. Nella sua musica troviamo perciò in prima linea il fervido credente e soltanto dopo l’artista. La sua arte non gli è scopo ma mezzo e viene ogni giorno sempre più depurandosi dagli elementi eterogenei ancora inerenti alle prime opere.

E qui mi sia concessa una piccola indiscrezione, di cui i lettori mi saranno per avventura grati. Annodando a lunghi ed intimi colloqui che ebbi con Tebaldini su l’arte sacra, egli mi scriveva mesi fa queste testuali parole:

“Cosa importa se a noi mancano gli applausi? Cosa importa se l’alto ideale che ci anima non è neppure intraveduto dalla stessa falange degli pseudo-artisti? Io sono uno di quei pochi e piccoli uomini che hanno l’illusione di lavorare per l’avvenire. È veramente illusione la nostra? Potrebbe darsi. Ma sogno sempre, sempre il ritorno a quegli splendori dell’arte cristiana allorquando essa era la pura, incorrotta manifestazione di potente fede religiosa ed artistica comune ad un secolo, più generazioni, a masse di credenti… Cadrò forse a mezza via. Che importa! Altri mi raggiungerà e mi sorpasserà e lo scopo sarà raggiunto. Ad majorem dei gloriam”.

Un esame di quanto Tebaldini ha creato, sarebbe qui doppiamente fuori di luogo, prima perché molte delle sue non numerose opere sono ancora inedite e poi anche perché le edite sono conosciute ad un piccolo numero di persone.

La sua opera capitale rimane finora il Requiem scritto assieme a Bossi, un lavoro che, sia per l’ispirazione che per la magistrale fattura, si può mettere a paro con le migliori opere di Haller, Witt, Mitterer e pochissimi altri maestri ceciliani moderni.

Ma Tebaldini difende la sua causa non solo con le sue opere musicali. Arguto e colto scrittore, non trascura mai un’occasione portagli di spezzare una lancia per i suoi ideali e senza riguardi ed ambagi, ma colla sincerità dell’artista che è persuaso della buona causa che difende, egli mette il coltello nel marcio e lo mostra per quanto gliene ne vengano e ire, e rancori, e inimicizie. E di queste non ebbe davvero penuria, ma non per questo decampò d’una linea dai suoi propositi per quanto ne avesse a soffrire.

Senonché i frutti del suo apostolato, condiviso da pochissimi si mostrano ormai oggi. La riforma della musica sacra in Italia ha già fatto progressi, che venti anni or sono sarebbero apparsi impossibili, stante il male inveterato. Ogni giorno essa conquide qualche piazza forte, ogni giorno giungono notizie di vittoria. Il povero organista di Piazza Armerina occupa oggi un posto importante; il suo nome è noto e onorato da tutti coloro ai quali la riforma della musica da chiesa sta a cuore. E l’antica città d’Antenore [Padova] che si prepara a festeggiare il centenario del suo Patrono, mostrerà come anche in Italia non siano intieramente spente le antiche tradizioni, e che vivono ancora degli uomini d’alto animo che le sapranno far risuscitare.

E con ciò chiudo. La riforma della musica sacra è forse un’utopia per i nostri tempi. Ma io non credo aver fatto opera vana nel delineare il profilo d’un artista di gran cuore, di grande ingegno e di forte volere, onde esso possa in tanta meschinità di ideali servire di utile esempio alla nostra giovane generazione.

 

Alfredo Untersteiner1

 

(stralci da “Gazzetta Musicale di Milano”, a. 50, n. 25, 23 giugno 1895, pp. 425-26, 431)

 

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1. Alfredo Untersteiner (Rovereto 1859 – Merano 1918), laureato il legge, si dedicò per hobby alla musica che studiò a Innsbruck. È stato un autorevole musicologo. I suoi migliori saggi furono pubblicati sulla “Rivista Musicale Italiana”. Ha lasciato anche una importante “Storia della musica”. La deportazione in campo di concentramento austriaco durante la prima guerra mondiale, lo portò alla morte.

 

 

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